Chi trova un amico trova un tesoro. E’ un detto, forse banale, ma certamente vero. Al di là di ogni possibile riflessione sul detto, che comunque risulterebbe effimera e di poco valore, e sulla veridicità del caso relativo all’amico a cui mi riferisco, che sì, è un vero e proprio forziere, quello che ho trovato in questi giorni in cui sono stato ospitato a casa sua sono delle chiavi. Le chiavi: un mezzo per poter vedere oltre e di più, per poter vedere davvero cosa c’è oltre quella porta spesso blindata, chiusa e arcinota ai passanti.
La porta di cui parlo e della quale ho avuto la fortuna di superare la soglia grazie alla guida di un suo fedele custode, è Roma. Se parlare della città attraverso queste righe sarebbe riduttivo, mettere a lato del testo delle foto risulterebbe addirittura inutile. Nei purtroppo solamente due-tre giorni a nostra disposizione per visitare l’Urbe, abbiamo visto davvero molto in senso assoluto. Per farlo io e il mio moderno e intraprendente Virgilio abbiamo percorso in una giornata quasi 20 km a piedi, ma abbiamo visto poco relativamente a quanto la città abbia da offrire. Mi è difficile credere un turista possa godere anche di un solo quarto di tutto ciò che la città può dargli, non solo per la natura del turismo moderno, di cui parlerò più diffusamente tra poco, ma anche in considerazione della permanenza media di due giorni e mezzo per visitarla.
Sì, è la stessa mia, ma con la differenza che posso ragionevolmente supporre che essi non possano godere della combinazione tra l’expertise della mia guida; le nostre gambe di giovani uomini che conoscono l’esercizio fisico; la possibilità di spostarsi in auto per raggiungere zone più lontane dal centro ma non meno rilevanti quali Trastevere o Montemario. Scrivendo ora dalla mia camera, non può che crescere il rammarico per non aver visto diversi pezzi importanti di Roma, ma d’altronde, considerando il fatto che siamo riusciti a vedere il Colosseo solo nella serata, mi rendo conto che di più non era proprio possibile fare.
Ciononostante, non ritorno a casa con una serie di file in pixel nel telefono, ma con molto di più. Questi giorni sono stati una vera e propria esperienza in una città che ha molto da dire a chi vuole ascoltarla, una città che ha attraversato la storia dell’umanità e ne è stato per molto tempo il centro. Una città senza la quale il mondo oggi non sarebbe quello che conosciamo. Una città che nonostante le sue contraddizioni, l’affiancarsi di sacro e profano, di arte e degrado, di caos e solenne santità, sa anche essere catartica.
Posso sperare che questa sensazione sia comune a chiunque visiti Roma? Che la sensazione sia quella che un mese non basterebbe per vederla e conoscerla come si deve e forse nemmeno due?
Cosa vedono dunque queste persone talvolta provenienti da altre parti del mondo? Cosa si portano a casa oltre alla calamita col Colosseo da attaccare sul frigorifero?
La risposta non può che variare per ogni persona probabilmente, e sicuramente la cultura di provenienza incide sulla percezione dei luoghi. Al di là di questo, ciò che temo è l’utilizzo della città eterna come un usa e getta, qualcosa da vedere, non da vivere, per il tempo necessario a scattarsi un selfie da inviare a chi è a casa. Quel che mi fa dubitare a riguardo è proprio l’enorme quantità di venditori ambulanti che, a Roma come nelle altre città, vendono i selfie stick nei luoghi di maggior interesse. Oltre a rappresentare già solo con la loro presenza un orrore estetico che stride con il contesto in cui si trovano andando a lederne il decoro, essi sono per questioni di domanda-offerta un chiaro sintomo del numero di selfie scattati in quel luogo.
Sia ben chiaro, non c’è alcun male nel farsi delle foto, non è questo il punto, il punto è come il visitatore usufruisce del luogo in cui si trova.
Questi luoghi imponenti crollano sotto i colpi della modernità, del tutto è più veloce, del consumismo che coinvolge tutto, perdono il rispetto un tempo portato alla loro autorità, trasformandosi così da mezzi per il trascendentale, l’esperienza di bellezza (e perciò in definitiva mete ma anche motori di un percorso personale), a mezzi materiali da consumare utili allo scatto della fotografia per lo snapchat o instagram di turno che verrà prima o poi cancellata. Lo scopo allora non riguarda più la visita come atto di conoscenza, sia essa anche interiore, ma come atto di marketing di se stessi. La bellezza immortale viene così declassata a sfondo, sacrificata in nome di affermazione e apprezzamento sociale misurabili in “like”.
Cosa cerchiamo allora in questi luoghi? Che senso hanno per noi?
Sono domande alle quali non riesco a trovare una risposta e le uniche risposte che mi do sono tristi e ciniche, e le scrivo non per rivelare una supposta verità, ma nella speranza di essere smentito.
Il mio timore è che questi luoghi agli occhi di un uomo del XXI secolo non abbiano più alcun valore. Che questi monumenti siano solo elementi folkloristici che fanno parte del palco in cui si trova, e che quindi siano prive di qualsivoglia autenticità e valore. Detta altrimenti, per un mondo affascinato dalla tecnologia fine a se stessa, dai grattaceli, dai palmari, caratterizzato dalla velocità di trasporti, comunicazioni, transazioni economiche e finanziarie, in cui tutto è calcolabile e valutabile in termini monetari, in cui tutto è consumo, questi luoghi immobili ed eterni appartenenti a un altro mondo perdono efficacia comunicativa. Essi parlano a orecchie che non sanno ascoltarli e quindi non hanno molto da dare. L’egocentrismo derivante dal consumismo e dall’individualismo della nostra cultura conducono poi all’errore di credere che la valutazione sia corretta, in questo modo un giorno potremmo arrivare a pensare che quelle pietre ai Fori Imperiali non siano molto più che pietre e non a pensare che sia il valutatore a non essere in grado di guardarle.
E allora sì, così, per una foto al Colosseo, una a San Pietro, una alla pizza, e l’acquisto di un magnete, due giorni e mezzo per visitare Roma sono sufficienti.
Il demonio allora, non è l’ignoranza, è l’indifferenza che oscura la vista e ci impedisce di vedere ciò che muove il mondo e, come la magia, sfugge alle regole che lo governano: la bellezza.