Bestie di scena, ideato e diretto da Emma Dante, è lo spettacolo che il Piccolo Teatro Strehler di Milano ospita fino al 19 Marzo e che, in appena poco più di un’ora, riesce a provocare nel pubblico le reazioni più diverse.
L’umanità in fuga senza via d’uscita – così come la stessa Emma Dante descrive il ruolo degli attori – è fonte di grande turbamento o di un’esaltazione che tuttavia non esclude una certa inquietudine.
Sin dal suo ingresso in sala, il pubblico trova gli attori già sul palco, impegnati in una serie di esercizi che richiedono loro energie e concentrazione. Si è ingenuamente portati a supporre la casualità della loro presenza anticipata sulla scena: una sorta di divertissement per l’occhio esterno degli spettatori che possono, tra una parola e l’altra mentre cercano il proprio posto e vi si accomodano, rendersi voyeurs di un rito che generalmente si svolge dietro le quinte. Eppure il ritmo e la precisione dei movimenti e la coordinazione del gruppo lasciano intendere che si tratta di qualcosa di più di semplici esercizi di distensione. E le luci che non si spengono generano una strana aria di attesa.
Attraverso un progressivo offuscamento, la luce muore soltanto quando tutti gli attori sono ormai drammaticamente nudi di fronte alla molteplicità di occhi che li scrutano. Nessuna parola è stata detta fino a questo momento, nessuna parola – piena, significativa, esplicativa – sarà detta nell’ora che seguirà.
E’ chiaro, dunque, che lo spettacolo comincia ben prima del buio della sala, ma quando? E quanto tempo ognuno impiega per capirlo?
Emma Dante schiaffeggia sin da subito lo spettatore e l’idea di teatro tradizionale sfruttando un’overture non convenzionale e simbolica: come l’attore agisce e vive sul palco e impiega del tempo per rendersi conto della sua nudità che subito cerca di coprire, così noi agiamo e viviamo e impieghiamo del tempo prima di riuscire a mettere a fuoco la condizione umana della quale siamo prede e alla quale non possiamo sfuggire. “Esseri primitivi, spaesati, fragili, un gruppo di ‘imbecilli’” , ecco cosa sono gli attori ed ecco cosa siamo noi perché se le “bestie di scena” si illudono di vivere, si fanno condizionare dagli oggetti, sottostanno alle direttive altrui e sono alienate da tutto, preda di danze canti urla e litigi, noi ci troviamo esattamente nella stessa posizione con un’unica differenza: non c’è palco, solo vita quotidiana.
Lo spettatore, quindi, è costantemente e necessariamente chiamato in causa, sia perché si parla anche di lui sia perché è il suo sguardo a stabilire il valore di quanto accade in scena.
L’uomo ridotto a scimmia che sputa arachidi verso il pubblico, la donna disumanizzata negli automatismi di una bambola parlante (..non comunicante!), l’uomo sottomesso alla volontà della spada che lui stesso tiene in mano, la donna pietrificata capace soltanto di indicare la fonte del suo turbamento sono alcuni esempi della complessità semantica di ogni gesto che ha luogo sul palco.
L’occhio del pubblico, dunque, trova il suo compito specifico nell’interpretazione di ciò che siamo e, per farlo seriamente, non può prescindere dal confronto con la nudità generatrice di repulsione, vergogna, imbarazzo. Tali sentimenti, pur di essere esorcizzati, si manifestano in un riso – a mio avviso – isterico e inappropriato. In Bestie di scena non c’è alcuna comicità; al contrario, una potente drammaticità invade la sala intera attraverso versi, lamenti e litigate incomprensibili. Lo spazio della parola, incapace di rendere integralmente la fragilità, l’insignificanza e la miseria dell’uomo, è affidato ai corpi, ai loro sforzi e alle loro nudità.



E’ proprio questa nudità così cruda e schietta che costituisce l’essenza della rappresentazione.
Da un lato, essa è letterale: sul fondo nero, carne ed ossa si muovono convulsamente o attendono guardinghi ciò che accadrà. Dall’altro, essa è metaforica: non un nudo istantaneo, erotico, pornografico, mediaticamente distante, bensì duraturo, concreto, sincero, sofferto come a dire “questo è ciò che resta se ci spogliamo di tutto”.
Resta la condizione umana come sopravvivenza corruttibile, debole e dolorosa ed Emma Dante la scandaglia senza fornire personali proposte di certezze, risposte o verità assolute.
Gli “imbecilli” sono, alla fine dello spettacolo, degli “imbecilli”- consapevoli poiché scoprono di essere, ognuno a loro modo, automi, invasati, peccatori, bestie. Soprattutto, scoprono che la loro nudità, in realtà, li ha sempre accompagnati e che quindi non c’è più alcuna ragione per coprirsi e per tentare la fuga.
E’ l’affermazione sofferente di se stessi in una realtà che nulla ha di edenico e che, ormai disillusi dalla impossibilità di poterla cambiare, si accetta risoluti.


