“Che Siamo fatti d’Amore, di Lutti, di Lacrime e di Dolore”

Author

Livia Corbelli

Livia Corbelli

RECENSIONE DI STORIA DI ASTA, J.K.STEFANSSON

Col mare davanti che mi rimesta in testa le parole che ho letto, smetto di essere dove sono e mi lascio andare alle suggestioni dei fiordi islandesi che J. K. Stefánsson ha così splendidamente creato in Storia di Ásta. Li vedo aprirsi

“come un urlo davanti al mare gelido e ai suoi abissi, alcuni sono un odio silenzioso, altri un sospiro, ma forse la maggior parte sono un po’ di tutte queste cose” (p.60).

Così Stefánsson dipinge impressionisticamente l’Islanda: col pennello della poesia; perché

la poesia è sempre resistenza” (p.154).

A che cosa? Alle stagioni della vita, e al loro mutare – sembra suggerire. Eccola, allora, ergersi solida davanti agli occhi del lettore quella terradura e affascinante che anche nei momenti più caldi dell’anno non elasticizza granché la propria rigidità: “qui si viene al mondo nel freddo” (p.64) e si impara, senza consolazione alcuna, l’equivalenza tra vivere e lottare, qualche volta alleggerita da quel sentimento del sublime il cui apice sta nelle aurore boreali. Ásta è proprio come l’Islanda – è dura e tempestosa, e di una bellezza lancinante, perciò pericolosa.

Storia di Ásta non è però la storia di una vita, non c’è una reale intenzione biografica. E’ piuttosto la storia delle vicende di un animo, scandita dallo slittamento continuo di tempi e luoghi. Si va dall’atmosfera mitica che avvolge i mesi passati nei Fiordi dell’Ovest da Ásta  adolescente passando attraverso la contemporaneità di Vienna, porta mitteleuropea senza serratura, fuga-rifugio di Ásta giovane studentessa, sino al presente di Trump e del climate change considerati da un narratore di cui facilmente si perdono tracce.

Storia di Asta

Dunque, una prosa scorrevole e coinvolgente quella di Stefánsson e, tuttavia, non immediatamente accessibile proprio per via di questo costante slittamento spazio-temporale, ma non solo. Anche la volontà stessa di seguire il percorso di un animo compromette la linearità della narrazione: i pensieri si sommano e si susseguono in un fluire continuo che coinvolge al contempo tutti gli altri personaggi (compreso il narratore stesso) che con lei hanno a che fare, sovrapponendone le voci e i punti di vista. Ne emerge una sorta di polifonia paragrafata, marcata in corsivo e ad ogni incipit da una frase (spesso quasi una massima) o da poche parole che sintetizzano l’emozione principale o il quesito esistenziale di quel paragrafo. Altre volte, in corsivo all’inizio del paragrafo c’è soltanto la prima parola della prima frase – come a dire che iniziare è la cosa più importante, ma non significa nulla se non si sa come finire. Lo sa bene la madre di Ásta, Helga. E lo sa bene anche il narratore che nel prologo si preoccupa di come si possa davvero

“raccontare la storia di una persona senza toccare anche le vite che la circondano” (p.8);

mentre nell’epilogo, più risolutamente, afferma che

“è impossibile raccontare una storia senza sbagliare, senza intraprendere percorsi arrischiati, o senza dover tornare indietro, come minimo due volte – perché viviamo contemporaneamente in tutte le epoche” (p.453).

La storia è, quindi, quella della ricerca spasmodica e straziante di se stessi, del proprio posto tra la gente e tra le ferite collezionate: “è troppo conoscere i punti cardinali?” (p.130), ci si chiede. Si corre verso le risposte che non si hanno, verso l’amore desiderato sopra ogni cosa, spesso confondendolo, altre volte bistrattandolo. Si corre anche e soprattutto verso la felicità agognata (“Dov’è la mia felicità, l’hai vista qui in giro? Si nasconde sotto il letto?”, p. 289), non sempre capaci di riconoscerla nella sua manifestazione immanente poiché proiettati altrove, chissà dove. Una vita alla ricerca, sì; una vita in fuga, pure – la mancata realizzazione dei propri desideri è allo stesso tempo sintomo di vigliaccheria e di coraggio.

Benché appaiano in forme diverse, i cicli di ricerca e fuga che contraddistinguono Ásta, sempre preda di una sedicente tara ereditaria, sono in realtà il motore delle vite di tutti i personaggi, agitati da Stefánsson in una emulsione tanto banale quanto reale: la semplicità e complessità di pensiero. La prima consente un adeguamento al mondo, un abbandono almeno parziale delle proprie pretese, mentre la seconda non può prescindere da una certa dose di sofferenza, profonda quanto la sensibilità di chi la avverte. Comunque, il procedimento binomiale è presente in tutta la narrazione

– “questa luce che a volte è stranamente imparentata col buio” (p.317); “dio e il diavolo sono un mostro a due teste” (p.373) –

che in fondo non è nient’altro che un grande interrogativo sulla vita e sulla morte

(“Anzi, le verità del cuore non sempre si accordano a quelle del mondo. Per questo la vita è incomprensibile. E’ dolore. E’ tragedia. E’ la forza che ci fa risplendere.”, p.472),

sul senso della letteratura e della memoria per la vita

(“Allora la letteratura deve in primo luogo prepararci a morire, e non aiutarci a vivere meglio?”, p. 166).

Livia Corbelli

Bibliografia
[1] J. K. Stefansson, Storia di Asta, Iperborea, 2018

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