L’euro per l’Italia

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Giovanni Sgaravatti

Giovanni Sgaravatti

In Italia l’unione monetaria è spesso presa come capro espiatorio di tutti i mali degli ultimi vent’anni. Per verificare la fattualità di tale critica bisogna ponderare gli svantaggi della moneta unica con i vantaggi, ma soprattutto è necessario uno sforzo critico atto a verificare il controfattuale (ovvero cosa sarebbe successo se non avessimo adottato l’euro).

Moneta da un euro, foto di Alberto Moglioni

Gli svantaggi ribaditi dagli scontenti stanno nell’aver perso la sovranità monetaria e nel cambio sfavorevole. Partiamo con il primo argomento. Quello che una volta era il ruolo della Banca d’Italia è ora passato alla Banca Centrale Europea (Bce). Il vantaggio di poter stampare moneta giace nella possibilità di ricorrere a politiche monetarie espansive e nella svalutazione. Con le prime, la banca centrale mira ad abbassare i tassi di interesse, favorendo i consumi e gli investimenti. Mentre con la svalutazione si favorisce l’export e si abbassa il costo del lavoro.

Da 4 anni a questa parte, la Bce ha ampiamente effettuato politiche monetarie espansive, seppur indirettamente tramite l’acquisto di BTp, quindi il problema semplicemente non si pone. Un discorso diverso è da farsi sulla svalutazione. Questo strumento si è effettivamente perso con l’adozione della moneta unica e l’Italia non è stata in grado di sopperire a questa carenza. Con la perdita di tale espediente, un aumento ingiustificato dei salari (quindi slegato dalla produttività) non può più essere corretto svalutando la moneta. Allo stesso modo, non si può più aumentare la competitività dei prezzi italiani rispetto a quella di paesi come Germania o Francia semplicemente svalutando. Questo non è stato compreso, o quantomeno non si è mai avuto il coraggio politico per riformare radicalmente il mercato del lavoro per incentivare la produttività, vincolando gli stipendi a quest’ultima.

Porto commerciale, foto di Kinky Lemon da Flickr

Inoltre, l’inadeguatezza della nostra classe politica è stata acuita dall’entrata nel panorama globale di nuovi player commerciali come la Cina, dall’aumento del costo delle materie prime e dalla crisi del 2008. Ricapitolando, il vero problema dell’Italia non è stato quello di aver perso la possibilità di svalutare, bensì l’insufficienza di riforme complementari all’adozione della moneta unica. Infine, la svalutazione è uno strumento efficace solo nel breve periodo e non deve essere utilizzata sistematicamente. Questo perchè l’altro lato della medaglia rispetto alla svalutazione è l’inflazione. 

La svalutazione difatti si effettua o per compensare un differenziale inflattivo (quindi quando c’è inflazione) o tramite l’immissione di nuova valuta, stampando più moneta rispetto al trend storico (quindi creando inflazione). Con una maggiore quantità di moneta in circolazione questa perde valore e si svaluta rispetto alle valute estere.

Un altro punto spesso citato da chi preferirebbe la sovranità monetaria è la riduzione del rapporto debito/Pil stampando moneta. Qui bisogna ragionare in termini nominali: aumentando la quantità di valuta, il valore del Pil aumenterà (il nuovo prezzo dell’insieme di beni di un paese sarà maggiore). Supponendo zero deficit e quindi un debito costante, il rapporto debito/Pil invece diminuirà (cresce il denominatore mentre il numeratore viene tenuto fisso). Per questo ed altri motivi, ad una prima analisi tali politiche sono molto allettanti, e non per niente vengono attuate indiscriminatamente in molti paesi dove le banche centrali sono de facto in mano alla politica. Il problema di stampare moneta a più non posso è appunto, di nuovo, l’inflazione. In Italia per esempio il periodo storico nel quale il rapporto debito/Pil si è ridotto più drasticamente è stato quello della fine della seconda guerra mondiale, dove l’inflazione ha raggiunto addirittura il 345% nel 1944, mentre il rapporto debito/Pil è crollato da poco più del 100% al 20% in quattro anni (1943-1947). Alla stessa maniera, negli anni ‘70 un’elevata inflazione ha permesso di contenere un aumento del debito che sarebbe altrimenti esploso (come accadde poi negli anni ‘80, quando si finanziò a debito tutto il nostro welfare state, dall’educazione alla sanità). Il problema di un’alta inflazione è la sua natura di tassa recessiva: l’inflazione può essere considerata come una tassa sulla classe media, la quale non ha la possibilità di spostare capitali all’estero e i cui salari subiscono ritardi nell’adeguamento inflazionistico (basti pensare all’impoverimento generale dell’Argentina, o più recentemente alla Turchia e al Venezuela). Quindi, nonostante l’inflazione sia utile per ridurre il rapporto debito/Pil, la sua natura di tassa recessiva e il suo difficile controllo una volta innescato un meccanismo inflazionistico la rendono una misura poco raccomandabile. Per questo l’inflazione ideale è considerata essere appena al di sotto del 2%, obiettivo per altro perseguito dalla Bce.

Parliamo adesso dell’altra recriminazione fatta all’euro: il cambio sfavorevole. Su tale punto è stato scritto tantissimo, forse troppo. Qui ci limiteremo a due considerazioni. La prima è che i tassi di cambio furono decisi assieme agli altri paesi europei sulla base di quelli esistenti tra le varie valute dell’epoca (e questi erano i tassi di mercato quindi c’è ben poco da discutere). La seconda è che se i prezzi aumentarono non fu colpa del cambio, bensì della poca vigilanza effettuata per evitare aumenti ingiustificati. 

Ed ora veniamo al controfattuale. Oltre alla necessità di aggiustamento dei prezzi per tutte le  aziende esportatrici verso i 18 paesi terzi dell’area euro (tra cui Germania, Francia e Spagna), spesso ci si dimentica che se non avessimo adottato la moneta unica avremmo dovuto continuare a pagare un tasso di interesse sul debito di circa il 10%. Avere tassi al 10% con un debito pubblico al 130% del PIL significa che ogni anno l’Italia avrebbe continuato a pagare almeno il 13% del PIL solo in interessi sul debito (130 x 0.10). Dopo l’entrata in vigore dell’euro, i tassi di interesse sono scesi sotto il 4%, il che significa un risparmio di spesa per il governo (e quindi per i contribuenti) di 8 punti percentuali di Pil ogni anno. Infatti, nel periodo compreso tra il 1998 e il 2007 il debito pubblico scese di 10 punti percentuali di Pil. Cifra tra l’altro bassa (nello stesso periodo il debito Belga scese di 30 punti percentuali) a causa degli aumenti di spesa pubblica piuttosto indiscriminati fatti in quegli anni (soprattutto dal secondo governo Berlusconi). In ogni caso, tale risparmio fu dovuto al guadagno in termini di credibilità dello Stato italiano nei confronti degli investitori, causato dallo spostamento di poteri dalla Banca d’Italia alla Banca Centrale Europea e alla maggior fiducia riposta in quest’ultima nel riuscire a mantenere l’inflazione sotto controllo. La fiducia dei mercati finanziari è un elemento che spesso viene denigrato da opinionisti e governanti. Il dato riportato sopra dovrebbe bastare a far comprendere quanto questa sia invece importante per le casse dello Stato). Otto punti percentuali di Pil corrispondono oggi a circa 144 miliardi, come metro di paragone basti pensare che il reddito di cittadinanza ci costa grossomodo 7/8 miliardi. È fuori discussione che se non fossimo entrati nell’euro saremmo molto più soggetti alla speculazione finanziaria. Infine, l’euro funge da riserva di valore (come tutte le valute forti) e viene accettato nella stragrande maggioranza dei paesi al mondo. 

In conclusione, le cause del rallentamento italiano dovrebbero essere ricercate in altri fattori esterni alla moneta unica. Sembra miope biasimare l’euro di tutte le disfunzioni economiche dell’Italia. Questo esercizio è particolarmente ridicolo nel medio e lungo periodo (dove il denaro è neutrale). Inoltre, il buon senso suggerisce che è molto improbabile che l’Italia possa essere l’unico paese dell’Unione monetaria a essere negativamente influenzato dall’euro. Infatti, negli ultimi vent’anni le altre principali economie hanno visto il potere di acquisto dei loro cittadini aumentare di un quinto, o addirittura raddoppiare nel caso dei paesi dell’est. Le cause della stazionarietà della crescita italiana rischiano di essere molto più radicate in fattori culturali, legislativi, demografici e storici che nessun governo ha ancora veramente affrontato.

Giovanni Sgaravatti

Riferimenti:

Macroeconomics: A European Perspective, Blanchard, Amighini, Giavazzi (seconda edizione, 2013, pag. 6).

I sette peccati capitali dell’economia Italiana, Carlo Cottarelli, edito Feltrinelli (ultimo capitolo).

https://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2019-05-20/come-e-cambiata-l-economia-italiana-primi-vent-anni-dell-euro

https://www.linkiesta.it/it/article/2013/09/14/la-dura-eredita-del-debito-e-nata-negli-anni-sessanta/16394/

https://cronologia.leonardo.it/inflazio.htm

https://it.inflation.eu/tassi-di-inflazione/italia/inflazione-storica/cpi-inflazione-italia.aspx

https://www.ilfattoquotidiano.it/2015/04/14/debito-pubblico-italiano-vecchia-storia/1589317/

https://www.ilfattoquotidiano.it/2016/01/18/quelli-che-leuro-era-giusto-ma-il-cambio-era-sbagliato/2385235/

https://umbvrei.blogspot.com/2015/06/italia-pil-e-debito-pubblico-dal-1861.html

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