In quel cielo azzurro non si vedono più le scie degli aerei.
Sono ormai alcune sere che esco di casa sul fare del crepuscolo e noto questa insolita mancanza, lassù, a diversi chilometri sopra la mia testa. Anche se mi sdraio a pancia all’insù in giardino, di aerei non se ne vede nemmeno l’ombra, niet. E’ il giorno 36 di isolamento, una brezza primaverile mi fa tremare, ed anche guardando in alto non sembrano esserci novità.
I viaggi in aereo, quel mondo fantastico in cui venni proiettato per la prima volta quasi 15 anni fa. Me lo ricordo come un sogno, come un qualcosa che avevo visto solo nei film ed invece, in quel momento, ne divenivo protagonista. Con quegli occhi infantili, quel semplice tentativo di emulare gli uccelli ed ergersi come condottieri dell’Universo era di suo motivo di eccitazione imparagonabile. Passai quel viaggio inebriato come poche volte, e rimasi deluso al momento che dovevo lasciare quella sfera bianca e blu con la scritta Ryanair che campeggiava sopra la mia testa. Da allora, da quel Pisa- Londra Stansted, tante foglie sono cadute e tanti alberi sono cresciuti, così come altrettanti voli mi sono lasciato alle spalle. Li ho calcolati l’altra sera, mentre riguardavo le foto di un viaggio sui Pirenei. Se non mi sbaglio sono quasi 200 ma la mia memoria, in giornate come queste, potrebbe legittimamente perdere lucidità.

Quei viaggi, quei luoghi, quelle persone che nel giro di qualche anno hanno popolato la mia esistenza e fatto crescere dentro di me un Universo che non avrei mai potuto immaginare nel suo splendore. Se metto assieme il tempo che ho passato viaggiando e vivendo all’estero, mi rendo conto di quanto sia sempre stato in equilibrio perfetto fra questi due mondi. Viaggiare mi ha spiegato cosa ci sia al di la del mio orto, mi ha fatto realizzare dei sogni ed abbattere pregiudizi. Ho appreso lingue e costumi di popoli con i quali mi sono sempre sentito in sintonia, realizzando l’importanza di avere una propria cultura, forte, radicata, e di poterla condividere pacificamente con gli altri. Ho capito che i popoli, le loro usanze e le loro regole, esistono, ci condizionano, ci danno una bussola per orientarci all’interno della razza umana, senza la quale sarebbe difficile dare un senso ai nostri passi, definire una nostra identità. Chissà che succede adesso in una Louvain-la-Neuve, deserta, dove il via vai di studenti lascia spazio ad un silenzio irreale. Chissà come lo stanno vivendo i Sivigliani, privati della settimana più bella del mondo, quella Semana Santa che solo dalle foto ti fa tremare come il primo bacio.
Ma fra tutti quei luoghi, quelle genti e quelle culture, una mi torna alla mente con rinnovata insistenza.
Come una voce cara, come una carezza infantile che ricaccia all’indietro i brutti pensieri. L’unico luogo dove, paradossalmente, il Covid-19 ha prodotto effetti irrisori, dato il suo isolamento nel Nord della Spagna.
Se chiudo gli occhi infatti, la memoria mi permette viaggi a ritroso di qualche anno, e quando li riapro mi ritrovo sempre li, nel cuore della Biscaglia, ad ammirare uno degli eremi più affascinanti del mondo. In questi momenti San Juan de Gaztelugatxe mi viene in mente con tutta la sua forza, con l’aura mistica che lo circonda. Lì, dove l’Atlantico sferza ad ogni ora del giorno e della notte, il rumore delle onde che si infrangono contro gli scogli non si interrompe mai. Il rumore della Natura, il silenzio dell’Assoluto.



Forse è un segnale. Forse quello del silenzio è davvero un insegnamento. E’ il ricordo di quanto questo Zeitgeist sia talmente pervaso di parole, di pose, di messaggi, che finisce per chiudersi in una Babele dove nessun linguaggio è più comprensibile. Se la smettessimo di guardare in modo ossessivo schermi, dati e statistiche, ergendoci a virologi, climatologi e complottisti, forse comprenderemmo la vita un po’ meglio.
Sapremo, al di la di tutto, amare le persone e non le cose, vivere in termini di necessario e non di accessorio. Camperemo forse un po’ più leggeri, senza bisogno di sapere sempre tutto, di prendere una posizione, di urlare senza nemmeno sapere contro chi stiamo combattendo. Quanto sarebbe bello se nel silenzio delle nostre intimità ci formassimo pensieri, parole, sentimenti, senza bisogno di stamparli, protestarli, ergerli a feticcio di ciò che vorremmo essere e dal quale, viceversa, ci allontaniamo inesorabilmente.
Delle volte, quando mi concentro, quelle onde sull’Atlantico me le sento davvero dentro, come un mantra che mi rilassa e mi congiunge al mio “sacro poco”.
Apro gli occhi. Le due e dieci.
Il caffè è pronto, e la pausa per le mie riflessioni va esaurendosi in pochi istanti. Mi riprendo un attimo, e fingo indifferenza rispetto ai pensieri di poc’anzi. Sposto la tenda e mi affaccio alla finestra, prima che la mia grigia ora di pausa dal lavoro si esaurisca e mi rimandi alle necessità primarie.
Non si vedono ancora scie degli aerei. Ma se guardo bene, c’è un filo più sottile, quasi invisibile, che tutti in cuor nostro abbiamo paura di pronunciare ma che si distingue bene nello spazio fra le nuvole e il cielo.
Quel filo si chiama Speranza.
Alessio Vagaggini
Marciano della Chiana (AR), 14/04/2020
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