L’aereo si stacca dal suolo e mi accorgo di avere un po’ di paura, giusto quel poco in più del solito, giusto quel poco in più che mi prende quando guardo il calendario e mi accorgo di quante cose stanno per finire e quante stanno per cominciare.

Sono contento di tornare, non so quanto e non so per quanto. Guardando il grigiore belga non posso infatti fare a meno di pensare a cosa sarei potuto essere se fossi nato 50 anni prima di quello che son nato. Accanto alla stazione di Charleroi sud c’è una fabbrica, credo un’acciaieria, sulla parete dell’enorme edificio c’è la scritta “THY-MARCINELLE”. “MARCINELLE”, è un nome che evoca troppe cose a un italiano. Quell’8 agosto 1956, 61 anni fa, a Marcinelle, nella miniera del Bois du Cazier, un errore umano unito a condizioni di sicurezza minime portarono alla rottura di un cavo elettrico e al conseguente incendio. La propagazione del fumo nelle gallerie della miniera portò la morte a 262 minatori rimasti intrappolati nel sottosuolo. In gran parte italiani, ben 136, ma anche belgi, greci, spagnoli e di altri Paesi ancora.
Leggi il nome e si fanno spazio poco a poco in fila, e se chiudi gli occhi le vedi.
Senti il sudore dei minatori, le lacrime per la fatica, lo sporco sulle loro mani e sui loro volti che non va via neanche con le docce che posso farmi io oggi e che non avevano la possibilità di concedersi loro. Li vedi rientrare in quelle case che il tempo non è riuscito a rendere oggi meno anonime. Senti le domande che si facevano e i dubbi che nascondevano alle loro famiglie sul luogo. “Ne vale davvero la pena?” li senti domandarsi davanti a un piatto di certo non abbondante. Senti le promesse di quei manifesti rosa che parlavano delle miniere belghe come della via d’uscita facile e sicura dalla miseria, promesse presto tradite dalle baracche in cui venivano gettati gli immigrati, quelle stesse baracche che qualche anno prima fungevano da lager nazisti per i prigionieri sovietici. Senti la paura di finire al Petit-Chateau[1], la prigione alla quale si veniva indirizzati nel caso non si volesse scendere nella miniera in cui si veniva mandati senza un minimo di formazione. Senti l’amaro in bocca per aver scoperto di esser stati truffati, venduti dal proprio Stato in cambio della fornitura di carbone[2].
Senti i pensieri che vanno ai paesi di provincia fatti di campi e chiese, e senti anche i pensieri che da quei campi e da quelle chiese vengono. Attese di lettere, di notizie, di un futuro migliore sperato e disatteso nella maggior parte dei casi, tragicamente interrotto dalle tragedie in alcuni altri. Speranze di mettere da parte i soldi della miniera per tornare a casa, quella in Italia, quella vera. E lì, poter poi costruire qualcosa e quel qualcosa è anche solo una casa con un giardino dove far giocare i figli.
E oggi? Che ne rimane?
Ne rimane che le situazioni, mutata mutandis, non sono forse poi molto cambiate nel Bel Paese. Aree abbandonate del Sud da cui i giovani fuggono come un secolo fa, prospettive accecate dall’atavica convinzione che qui non sia possibile creare qualcosa di bello e fruttuoso, dalle difficoltà dei nostri apparati istituzionali, dalle nostre corruzioni, dalle nostre sfortune come i terremoti e le alluvioni che non ci perdonano le nostre furbizie e negligenze e ci ricordano come siamo incapaci di combattere l’eterna guerra per difendersi dalla natura.
Ciò che è cambiato e che non possiamo permetterci di dimenticare, è la consapevolezza del sudore e del dolore provato da chi, giovane come noi, è andato in quel luogo grigio, come ci andiamo noi, a lavorare fuggendo dalla fame, come noi non siamo più costretti a fare.
Cosa ci è richiesto dunque, quali sono i nostri obblighi? Ci è richiesto di alzare la testa, di rendere loro quel futuro che hanno sognato per sé, per i figli e per i figli dei loro figli, che poi siamo noi. Abbiamo l’obbligo di dire loro che “si, ne valeva la pena”. Non per la fornitura di carbone in cambio della quale sono stati mandati a lavorare sotto una terra che non gli apparteneva in alcun modo, ma per le possibilità di oggi dateci dal loro sacrificio di ieri. Oggi siamo qui, sopra questo suolo, a studiare, non più ospiti in casa d’altri a domandare dignità, ma costruttori del mondo: quello nostro e quello altrui.
Finalmente possiamo dettare le regole del nostro futuro. A quei minatori dobbiamo il renderlo più brillante di quanto sognassero.
Riferimenti:
Sito: http://www.leboisducazier.be/it/storico/
Libri: Cuori nel pozzo. Belgio 1956. Uomini in cambio di carbone, R. Sorgato, Marsilio, 2010
Documentari: Marcinelle – memorie dal sottosuolo in La storia siamo noi – RaiStoria http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/puntate/marcinelle/541/default.aspx
Luogo: Rue du Cazier 80 – 6001 Marcinelle – Belgio
[1] Il Petit-Chateau era la prigione nella quale venivano mandati i minatori che si rifiutavano di scendere nella miniera. L’accordo contrattuale infatti prevedeva 5 anni di lavoro con l’obbligo di completarne almeno uno. Se, come in molti casi avveniva, poco dopo essere arrivato il lavoratore che veniva mandato nel sottosuolo senza alcuna formazione si rifiutava di lavorare, era per lui previsto il carcere.
[2] La “battaglia del carbone”, l’accordo di scambio uomini-carbone tra il ministro belga Van Hoecker e De Gasperi. Il primo interessato a sopperire alla mancanza di manodopera nelle miniere belghe, il secondo a alleggerire il peso della disoccupazione e a garantire uno sconto sulla fornitura del carbone in un’Italia ridotta in miseria dalla Seconda Guerra Mondiale appena conclusa.