Cosa é lo Smart Power?

Il concetto di smart power venne elaborato per la prima volta da Joseph Nye[1] nel libro “Soft power. Un futuro per l’America (Einaudi, 2004) in cui ha affermato che lo smart power è la capacità di combinare le risorse di hard power e del soft power in strategie efficaci a seconda dei contesti. Per chiarire in modo esaustivo i concetti portanti della teoria dello smart power: l’uso della forza, la ricompensa e l’impostazione dei programmi d’azione basata su questi ultimi costituiscono ciò che Nye definisce hard power; nella sua definizione completa, invece, il soft power è la capacità di influenzare gli altri cooptandoli mediante l’impostazione del programma, la persuasione e l’attrazione positiva, allo scopo di ottenere i risultati desiderati. Come afferma lo studioso, l’hard power fa pressione, il soft power esercita un richiamo. Il soft e l’hard power sono correlati poiché entrambi sono approcci per conseguire i propri obiettivi influenzando il comportamento degli altri[2].

smart power

Secondo lo studioso Wilson, l’approccio allo smart power nasce dalla consapevolezza che il soft e l’hard power non costituiscono semplici strumenti neutrali da esercitare in modo indipendente. Essi costituiscono istituzioni e culture istituzionali separate e distinte che esercitano le proprie influenze normative sui singoli, ciascuno con i propri atteggiamenti, incentivi e percorsi di carriera attesi. Lo smart power vuol dire conoscere i punti di forza e le limitazioni di questi strumenti[3]. Un esempio sul soft power potrebbe essere quello dei grandi investimenti fatti dalla Cina per promuovere la cultura cinese in tutto il mondo: secondo Nye la creazione di diverse centinaia di Istituti Confucio in tutto il mondo e l’incremento del numero di trasmissioni radiotelevisive internazionali, hanno lo scopo di attirare gli studenti stranieri nelle università cinesi. Affiancando alla crescita del suo hard power un’avvincente discorso sul soft power, la Cina ha cercato di usare lo smart power per trasmettere l’idea dell’ascesa pacifica volta alla conoscenza e alla cultura[4].

In generale, le risorse associate all’hard power includono fattori tangibili come la forza ed il denaro, mentre tra quelle associate al soft power si annoverano sovente fattori intangibili come le istituzioni, le idee, i valori, la cultura e la legittimità percepita dalle politiche. L’efficacia del soft power nel conseguire determinati risultati dipende molto più dal soggetto destinatario di quanto normalmente non accada con l’hard power.  Ma la relazione non è perfetta in quanto risorse intangibili come il patriottismo e la legittimità incidono notevolmente sulla capacità militare di combattere e vincere; anche la minaccia di usare la forza è un fattore intangibile, benché sia un aspetto dell’hard power[5].

Nella politica internazionale, le risorse che producono soft power si basano in gran parte dai valori che un’organizzazione o un paese ha espresso nella propria cultura, negli esempi che dà con le sue pratiche e politiche interne e nel modo in cui gestisce i suoi rapporti con gli altri; ma se i contenuti della cultura, dei valori e delle politiche di un paese non sono attraenti, la diplomazia pubblica che li trasmette non può produrre soft power, anzi, potrebbe produrre l’opposto. Ad esempio, come cita Nye, se si dovessero esportare i film di Hollywood pieni di nudità e violenze nei paesi musulmani conservatori, ciò produrrebbe repulsione piuttosto che soft power[6].

Bisognerebbe specificare che lo smart power non è soltanto un “soft power 2.0”, ma si tratta di un concetto valutativo oltre che descrittivo. Inoltre, si supera la limitazione ad applicare il concetto agli Stati Uniti d’America, infatti come afferma Nye, lo smart power è alla portata di tutti gli Stati e degli attori non statali. Il Centro per gli Studi Strategici e la Commissione di Studi Internazionali hanno teorizzato il concetto affermando che per smart power si intende sviluppare una strategia integrata, una base di risorse e un kit di strumenti per raggiungere gli obiettivi, attingendo sia all’hard power sia al soft power.

Poiché il termine è stato utilizzato dall’amministrazione Obama, alcuni analisti pensano che si riferisca unicamente agli Stati Uniti, mentre altri studiosi lo considerano come uno slogan per poter incrementare un discorso propagandistico, il concetto può essere utilizzato a scopo di analisi e non è in alcun modo limitato agli Stati Uniti[7]. Attualmente la ricerca di smart power non è guidata soltanto dalle scelte giuste o sbagliate del singolo leader. Le nazioni sofisticate hanno tutto: smart bombs, smart phones, smart blogs, solo per citarne alcuni. Qualsiasi attore che ha l’ambizione di migliorare la sua posizione nel mondo cerca di costruire strategie attorno questi nuovi fondamenti di smartness[8].

Una risorsa importante di soft power è la cultura, essa è l’insieme dei comportamenti sociali mediante i quali i gruppi trasmettono conoscenze e valori ed esiste a molteplici livelli. La cultura non è mai statica e culture differenti interagiscono in modi diversi e con il passare del tempo si influenzano a vicenda[9]. La cultura e la leadership sono due facce della stessa medaglia, poiché nel creare gruppi e organizzazioni i leader creano innanzitutto cultura. Una volta che la cultura esiste, questa determina i criteri della leadership e quindi chi può o non può essere un leader. Ad esempio, in diverse aree in Medio Oriente esistono subculture nazionali, regionali, locali, religiose, organizzative e di altra natura. Dunque, i leader devono affrontare difficoltà impietose per comprendere i contesti culturali dei diversi paesi e devono anche rendersi conto che il loro stile di comunicazione ha effetti diversi su opinioni pubbliche differenti[10].

Secondo Brannen, ricorrere allo smart power non è molto complicato, bisogna prendere maggior coscienza degli strumenti in possesso, e soprattutto, rivalutare le alleanze e la postura difensiva, in un modo che è cambiato velocemente negli ultimi anni. Il ricorso all’hard power non è sempre indispensabile, in quanto bisogna pensare “oltre alla canna di fucile”[11].

Lo smart power nel XXI secolo non consiste nel massimizzare il potere o nel preservare l’egemonia, bensì nel trovare i modi di combinare le risorse in strategie di successo in un nuovo contesto caratterizzato dalla diffusione del potere e dall’ascesa di altri attori[12]. Ciò consisterebbe in una strategia che mette in relazione mezzi e fini e ciò richiede chiarezza sugli obiettivi (risultati desiderati), le risorse e le tattiche per il loro utilizzo. Una strategia smart deve rispondere anche a una seconda domanda: quali sono le risorse di potere disponibili e in quali contesti possono essere utilizzate. Inoltre, è essenziale avere una visione precisa delle capacità e delle inclinazioni dei potenziali avversari. Nella maggior parte dei casi una buona comprensione del soggetto destinatario è essenziale per calibrare le tattiche usate per combinare tra loro le risorse di potere[13].

Antonella Valenti

References

[1] Joseph Samuel Nye Jr. (nato il 19 gennaio 1937) è uno scienziato politico americano. È il cofondatore, insieme a Robert Keohane, della teoria delle relazioni internazionali del neoliberalismo, sviluppata nel loro libro del 1977 Power and Interdependence. Insieme a Keohane, ha sviluppato i concetti di interdipendenza asimmetrica e complessa. Più recentemente, ha spiegato la distinzione tra hard power e soft power, e ha aperto la strada alla teoria del soft power. La sua nozione di smart power è diventata popolare con l’uso di questa frase da parte dei membri dell’amministrazione Clinton, e più recentemente l’amministrazione Obama; è stato capo del National Intelligence Council, vicepresidente del Sottosegretariato di Stato e sottosegretario alla Difesa durante l’amministrazione Clinton. (Laterza, 2012

[2] Nye J., Smart Power, Laterza, 2012, p. 26.

[3] Wilson E. J., Hard Power, Soft Power, Smart Power, The Annals of the American Academy of Political and Social Science, Vol. 616, 2008, pp.110-116.

[4] Nye J., op. cit., pp. 13-14.

[5] Nye J., op. cit., pp. 24-26.

[6] Nye J., Diplomacy and Soft Power, The Annals of the American Academy of Political and Social Science, Vol. 616, 2008, p. 95.

[7] Nye J., op. cit., p. 248.

[8] Wilson E. J, op. cit., pp. 112-113.

[9] Geertz C., Interpretazioni di culture, il Mulino, 1998, p. 73.

[10] Nye J., Leadership e potere: hard, soft e smart power, Laterza, 2009, pp.108-113.

[11] Brannen S., How to make a Great Power a Smart Power, Georgetown Journal of International Affairs, Vol.10, 2009, pp. 169-174.

[12] Nye J., op. cit., pp.246-247.

[13] Craig G. e Gilbert F., Reflections on Strategy in the Present and Future, in Makers of Modern Strategy: From Machiavelli to the Nuclear Age, Princeton University Press, 1986, pp. 871-872.

CAI: Cina e UE trovano terreno comune su un accordo per gli investimenti

Il fuso orario differente e l’emergenza epidemiologica ancora in corso a livello globale non hanno impedito la firma di un accordo considerato di importanza epocale per i rapporti economici tra Cina e UE. Il 30 dicembre 2020, l’incontro online tra il leader cinese Xi Jinping, la Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, la Cancelliera tedesca Angela Merkel ed il Presidente francese Emmanuel Macron, ha ufficialmente scandito la firma del Comprehensive Agreement on Investment (CAI), un accordo bilaterale, ormai in cantiere dal 2013, per gli investimenti tra Cina ed UE che apre il mercato cinese alle imprese dei paesi dell’Eurozona.[1] Dopo negoziazioni durate ben sette anni, sebbene sia ancora necessario lavorare sui dettagli e sull’implementazione dell’accordo, Pechino e Bruxelles sembrerebbero aver finalmente raggiunto un’intesa circa l’ossatura del patto teso ad assicurare maggiore reciprocità ed interdipendenza tra i due blocchi economici.[2] Il condizionale è d’obbligo, nella misura in cui è ancora necessaria l’approvazione del Parlamento Europeo; l’accordo, tuttavia, è stato accolto come un successo da entrambe le parti e giunge in un momento più che opportuno, in tempo utile per la fine del semestre della presidenza tedesca dell’UE, dei 45 anni dalle relazioni diplomatiche Cina-UE e a tre settimane dall’insediamento della nuova amministrazione americana di Joe Biden.[3]

Come riportato in una nota dell’UE, l’accordo in questione ha un grande significato economico, lega le due parti ad una relazione sugli investimenti fondata sui valori e basata sui principi dello sviluppo sostenibile.[4] Tra i comparti-chiave oggetto dell’intesa spiccano il settore dell’automotive, così come quello delle auto elettriche ed ibride, rispetto a cui la potenza asiatica sarebbe intenzionata ad aprirsi con maggiore trasparenza e facilità. Anche la sanità, l’energia e le telecomunicazioni risulterebbero oggetto di una consistente rimozione di ostacoli. Le aziende europee interessate a competere sul mercato cinese potranno farlo autonomamente, senza dover necessariamente accordarsi con un  partner locale (joint venture) e senza obblighi circa il trasferimento di tecnologie.[5] I paesi dell’Eurozona da sempre denunciano le forti restrizioni imposte da Pechino all’ingresso del proprio mercato, soprattutto in termini di obbligo al trasferimento forzato di know-how e tecnologie nei comparti ad alto livello tecnologico per ottenere le necessarie autorizzazioni amministrative dalle autorità cinesi. Ora, grazie all’accordo, questo processo risulta facilitato.[6] La Cina, quindi, in cambio di un progressivo accesso al mercato energetico del vecchio continente, ha assicurato opportunità e condizioni senza precedenti per le controparti europee; rinnovata importanza, inoltre, è stata riconosciuta all’armonizzazione dei contesti normativi relativi soprattutto alla trasparenza, prevedibilità e certezza giuridica delle condizioni di investimento, oltre che alla tutela di standard ambientali.[7] Seguendo questa traiettoria, il CAI potrebbe dunque rappresentare un primo passo verso un accordo di libero scambio più ampio con l’inclusione di impegni futuri, anche nell’ambito degli appalti pubblici.[8] 

Per Pechino, la firma dell’intesa costituisce una conferma delle aperture già consentite a seguito dell’introduzione, nel mese di gennaio dell’anno scorso, della Foreign Investment Law.[9] Nella prospettiva europea, inoltre, l’accordo pone le basi per rafforzare ulteriormente l’interdipendenza economica tra i due attori. Secondo Eurostat, nel 2019 l’UE ha esportato beni per il valore di €198 miliardi in Cina ed importato beni per €362 miliardi, con un commercio bilaterale dal valore di €560 miliardi. Nei primi 10 mesi del 2020, il volume degli scambi UE-Cina si è assestato a €477 miliardi, il 2,2% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.[10] La potenza asiatica , dunque, continua a rappresentare una destinazione essenziale per gli investimenti europei, soprattutto quelli di natura commerciale e di supporto all’azione di mercato, caratterizzati da una forte capacità penetrativa nel mercato estero di riferimento.

Al di là di motivazioni di carattere strettamente economico, l’importanza del CAI affonda anche nel terreno della geopolitica: la firma del patto segue infatti di pochi giorni la conclusione di un altro importante accordo commerciale, il Regional Comprehensive Economic Partnership – siglato tra i paesi dell’Associazione delle Nazioni del Sud-est Asiatico (ASEAN) più Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda.[11] La maggiore influenza commerciale e finanziaria garantita dai due accordi nelle aree regionali di riferimento, ha chiaramente un forte impatto anche sulla geopolitica globale. La distensione dei rapporti che la Cina ha avviato – prima con il blocco ASEAN e poi, nel caso specifico del CAI, con i paesi dell’Eurozona – non solo rimette nuovamente al centro delle dinamiche economiche Pechino, ma ne incrementa soprattutto il peso politico. Un discorso, questo, che acquisisce valenza specialmente in un‘ottica di competizione con gli Stati Uniti;[12] l’amministrazione Biden-Harris ha pubblicamente espresso la propria contrarietà alla conclusione dell’accordo, oltre che reticenza circa le pratiche economiche cinesi, intimando i partner europei a confrontarsi maggiormente circa le preoccupazioni statunitensi[13]. La controversa firma dell’accordo da parte europea sembra dunque rimarcare in modo netto le divergenti vedute con cui UE ed USA si sono approcciati al dossier cinese: Bruxelles, pur rimanendo all’interno di una cornice transatlantica, è ben consapevole di quanto il baricentro della crescita mondiale si sia ormai spostato ad Oriente.[14] La conclusione del CAI, dunque, costituisce per la Cina una vittoria diplomatica importantissima: il Gigante asiatico, pur essendo ritenuto un “rivale sistemico”, rimane per l’UE un partner essenziale, non solo nella lotta al Covid19 e al cambiamento climatico.[15]

Le continue violazioni di Pechino in tema di diritti umani hanno rappresentato uno dei principali ostacoli alla conclusione dell’accordo sugli investimenti. Il Parlamento Europeo, infatti, ha recentemente votato una risoluzione[16] affinché il CAI inducesse ad un maggior rispetto delle convenzioni internazionali contro il lavoro forzato. Chiaro, sin da subito, il riferimento alla minoranza musulmana degli Uiguri nello Xinjiang, concentrata in centri di detenzione e sottoposta a lavori forzati e trattamenti degradanti – sebbene Pechino, dal canto suo, si difenda parlando di “centri di formazione professionale”, utili a combattere la povertà e l’estremismo diffusi nella regione e considerati una delle principali minacce alla stabilità e sicurezza nazionale. In materia, la Cina ha accettato di “compiere sforzi continui e sostenuti” per portare avanti la ratifica delle convenzioni fondamentali dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro contro il lavoro forzato ma senza alcun impegno specifico, non è dunque escluso che, in futuro, l’UE possa introdurre nuove sanzioni per le violazioni condotte dal regime in tema.[17] 

Nuova Via della Seta
L'Italia ha aderito al progetto della Nuova Via della Seta senza sentire prima il parere dell'UE Wikimedia Commons Attribution-ShareAlike 3.0 Unported (CC BY-SA 3.0) https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0/

Cina e UE …e l’Italia in tutto ció?

Al netto dell’importanza storica dell’accordo, a lasciare perplessi è certamente la posizione dell’Italia, improvvisamente estromessa dal tavolo delle trattative. Nonostante la firma del Memorandum of Understanding del 2019 per aderire alla Nuova Via della Seta – ricordiamo che l’Italia è il primo ed unico paese del G7 a prendere parte alla One Belt One Road (OBOR) – lasciasse ben sperare per un rafforzamento delle relazioni sino-italiane, il ruolo che ad oggi spetta all’Italia è quello di semplice spettatrice dei negoziati, guidati dal format franco-tedesco.[18] Forte l’insoddisfazione italiana che, pur avendo invitato Francia e Germania ad una maggiore trasparenza condividendo le bozze dell’intesa, non ha ottenuto alcun risultato. Soprattutto la presenza di Macron, ha affermato il Sottosegretario degli Esteri Ivan Scalfarotto, è stata giudicata un vero smacco: se la Merkel ha potuto presenziare alla videoconferenza in quanto Presidente di turno del Consiglio dell’UE, la presenza del leader francese, invece, ha infranto il protocollo europeo, scavalcando di fatto gli altri 25 paesi membri. Il CAI sembra così gettare lo spettro del fallimento anche in merito all’accordo sulla Via della Seta concluso nel 2019: “un fallimento – ha affermato Scalfarotto – sia sul piano commerciale che politico. Se la logica italiana alla base della firma era l’auspicio di un aumento dei rapporti commerciali ed economici con la Cina, si può dire che a 18 mesi di distanza il calcolo si sia rivelato quantomeno ottimistico, se non del tutto fallace, privando il nostro paese anche della credibilità necessaria per giocare il ruolo di leader nella negoziazione”.[19] Il timore prevalente è che si stiano delineando nuovi rapporti di forza dai quali l’Italia rischia seriamente di essere estromessa, soprattutto alla luce delle opportunità che potrebbero derivarle dalla partecipazione al CAI – l’automotive, infatti, costituisce il 7% del PIL italiano, così come le aziende leader Enel ed Eni potrebbero avvantaggiarsi non poco della maggiore apertura di Pechino.[20]

Antonella Iavazzo

[1] http://www.xinhuanet.com/english/2020-12/30/c_139630412.htm

[2] http://www.xinhuanet.com/english/2020-12/30/c_139630735.htm

[3] http://www.xinhuanet.com/english/2020-12/30/c_139630412.htm

[4] https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/ue-cina-il-super-accordo-sugli-investimenti-28820

[5] https://www.money.it/market-mover-della-settimana-4-8-gennaio-2021

[6] https://www.ilsole24ore.com/art/cresce-sfiducia-le-aziende-europee-cina-allarme-i-contraccolpi-guerra-dazi-ACjg82E

[7] https://www.china-files.com/intesa-cina-ue-su-latteso-accordo-di-investimento-bilaterale/

[8] https://aspeniaonline.it/ue-cina-un-accordo-parziale-e-molte-questioni-geopolitiche-aperte/

[9] La “Foreign Investment Law” è un provvedimento atto a proteggere in misura maggiore gli interessi di investitori stranieri nel territorio cinese. Tra le misure previste, l’accesso delle imprese straniere agli appalti pubblici attraverso concorrenza leale e l’impossibilità di fare ricorso a sanzioni e licenze amministrative per trasferimento di tecnologie. Maggiori info su: http://www.xinhuanet.com/english/2020-01/01/c_138670986.htm

[10] https://www.ilsole24ore.com/art/i-leader-europa-e-cina-collegamento-chiudere-l-accordo-investimenti-ADmIXqAB

[11] https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/rcep-il-nuovo-motore-della-crescita-asiatica-28345

[12] Ibid.

[13] https://twitter.com/jakejsullivan/status/1341180109118726144

[14] https://aspeniaonline.it/ue-cina-un-accordo-parziale-e-molte-questioni-geopolitiche-aperte/

[15] https://www.china-files.com/intesa-cina-ue-su-latteso-accordo-di-investimento-bilaterale/

[16] https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/RC-9-2019-0246_IT.html

[17] https://formiche.net/2020/12/accordo-ue-cina-ghiretti/

[18]https://it.insideover.com/economia/ue-cina-via-libera-a-un-accordo-storico-ma-litalia-e-stata-estromessa-dalle-trattative.html

[19] https://formiche.net/2020/12/accordo-ue-cina-italia/

[20] https://it.insideover.com/economia/ue-cina-via-libera-a-un-accordo-storico-ma-litalia-e-stata-estromessa-dalle-trattative.html

Il genocidio degli Uiguri: una tragedia umana senza risposta

Come diceva De André, “il dolore degli altri è dolore a metà”[1]. In altre parole, quello che succede lontano da noi ci tocca soltanto in maniera effimera. Mentre leggiamo un articolo, mentre ascoltiamo una notizia alla tv, o durante una discussione tra amici; ma a volte, col tempo o grazie al rumore provocato da un evento particolare, quello che era soltanto una menzione, un non-evento o una situazione trascurabile assume un certo rilievo e diventa insopportabilmente visibile: non possiamo più ignorarlo. Credo che sia proprio questo quello che sta succedendo con gli Uiguri in Cina.

Un “genocidio” culturale silenzioso

Nonostante l’inattività dei grandi capi di Stato, il rumore si fa sempre più forte con il peggiorare della situazione e non si può più fare finta di nulla. grandi marche vengono messe sotto accusa, video vengono divulgati, i superstiti testimoniano. Uomini e donne allineati, occhi bendati e mani legate; sterilizzazioni forzate; voci di traffici di organi illegali… L’orrore di quello che sta succedendo nella provincia del Xinjiang non può più essere ignorato. Diverse ONG accusano la Cina di diversi crimini contro l’umanità: Human Rights Watch denuncia arresti ingiustificati e l’uso della tortura; gli esuli Uiguri parlano di “etnocidio” (cioè la “distruzione di un gruppo etnico o del suo patrimonio culturale”[2] senza necessariamente pregiudicare l’integrità fisica degli individui) e sono sostenuti dall’ONG Genocide Watch, che a luglio affermava che un vero e proprio “genocidio” degli uiguri stava avvenendo[3]. Nonostante prove schiaccianti, quarantasei Stati (la maggioranza dei quali sono paesi a maggioranza musulmana) hanno ufficialmente dichiarato di sostenere la Cina; rispondendo così a una lettera che denunciava la “situazione nello Xinjiang” mandata all’ONU da ventidue altri paesi. Nonostante ciò, nessuna misura concreta è stata presa dalla comunità internazionale; ma soprattutto, la regola del politichese è stata largamente applicata: nessuna menzione di nessun “etnocidio”, tanto meno di un “genocidio”.

È con grande ingenuità che mi chiedo: ma perché? Perché niente è stato fatto? Perché tanti paesi musulmani sostengono una tale repressione contro una minoranza musulmana? Perché non c’è nessuno che usi parole esatte, precise, così da dire in modo chiaro quello che sta davvero accadendo nello Xinjiang e agire? 

affissione su un muro a Bordeaux, Francia: “Nike, complice del genocidio dei uiguri”

Che cos’è un genocidio?

Per aiutarmi a capire, ho deciso di informarmi sulla parola stessa di “genocidio” e sui fatti storici che potrebbero corrispondere alla sua definizione. Per quanto riguarda la seconda parte, ovviamente mi viene naturale fare riferimento all’Olocausto, il genocidio degli ebrei e dei Rom (tra gli altri), perpetrato dai nazisti. Poi, pensandoci, a scuola ho sentito parlare anche di altri “genocidi”: come quello degli armeni o dei Tutsi. Ma alla fine, mi rendo conto di quanto poco conosca su questi tempi bui della Storia. È spaventoso aprire la voce di Wikipedia che fa l’elenco di tutti i “genocidi” e “massacri di massa”[4]  e trovarsi davanti a una lista interminabile di nomi, paesi e dati. Più abbattuta che informata, apro finalmente il mio vecchio Larousse[5], nel quale la definizione di “genocidio” riporta in maniera fedele quella della “Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio” dell’ONU, adottata nel 1948: “per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale: a) uccisione di membri del gruppo; b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro”[6]. Questa definizione sembra darmi ragione: non solo può essere considerata come genocidio una repressione culturale (“mentale”) – quindi non necessariamente soltanto una repressione fisica ma anche una tecnica organizzata volta a “impedire nascite” può esserlo. In altre parole, esattamente quello che sta facendo lo Stato Cinese agli Uiguri proprio in questo momento. Perché allora non dire pane al pane e vino al vino?

Monumento commemorativo dell’Olocausto a San Francisco, Stati Uniti.

Ovviamente, dobbiamo prendere in considerazione le difficoltà nell’accumulare prove concrete, notizie certe, e, in generale, la verità su dei fatti complessi, essendo i genocidi il frutto di una storia socio-politica lunga e complicata. Ma dobbiamo anche considerare i fattori giuridici e politici. Anche quando diversi paesi, o addirittura i tribunali internazionali dell’ONU, riconoscono ufficialmente un atto di genocidio, il consenso internazionale non è quasi mai raggiunto – ed i dibattiti continuano. È il caso per la maggior parte dei genocidi (Olocausto escluso). Esiste ancora oggi un dibattito sul genocidio degli Armeni, successo tra 1915 e 1916. Ventinove Stati soltanto lo riconoscono come tale, e tra quelli che ancora non lo riconoscono, ritroviamo Regno Unito, Israele e – ovviamente – la Turchia. Inoltre, nel 2015, la Russia ha posto il veto ad un progetto di risoluzione dell’ONU per riconoscere il massacro di Srebrenica, avvenuto nel 1995 per mano dell’esercito Serbo contro più di 8 000 bosniaci, come un genocidio. Era già stato necessario aspettare sei anni per avere delle decisioni da parte dei tribunali internazionali che hanno riconosciuto il massacro come genocidio (il peggiore perpetrato sul suolo europeo dalla Seconda Guerra Mondiale). Ma poi, nel 2006, la responsabilità dello Stato Serbo non è stata riconosciuta. Quest’ultimo ha presentato le sue scuse ufficiali nel 2010 (quindici anni dopo il massacro), senza però mai usare la parola “genocidio”, fatto che continua a negare.

Monumento commemorativo del genocidio degli Armeni in Yerevan, Armenia. Foto presa il giorno della commemorazione del genocidio in 2014.

Sottigliezza di linguaggio in politica: genocidio, una parola tabù

Perché c’è tanta difficoltà a qualificare questi massacri come “genocidi”, soprattutto quando sono degli eventi che appartengono al passato – e, a volte, ad un passato lontano? Le ragioni sono sempre politiche: per la Turchia, riconoscere il genocidio degli Armeni vuole dire esporsi a pagare un risarcimento importante ai discendenti di vittime e superstiti; vuole dire mettere in dubbio dei valori stessi dello Stato Turco, perché i suoi fondatori sono apparentemente stati partecipi attivamente al genocidio.

Non posso infine fare a meno di notare che non riusciamo a parlare di genocidi mentre stanno accadendone. In altre parole, accettiamo di parlare – con tante difficoltà! – di genocidi soltanto quando sono finiti, e quindi, quando le vittime sono morte e sepolte. Al di fuori della confusione che può regnare sul momento, ci sono delle ragioni politiche forti che impediscono di dire le cose come stanno e, quindi, di passare all’azione. Quello che sta succedendo in Cina fa risuonare altri ricordi, più vecchi ma non abbastanza per poter giocare la carta dell’oblio. Nel 1994, in Ruanda, più di 800 000 Tutsi sono morti, in parte perché la comunità internazionale ha rifiutato di parlare di “genocidio”. Mentre la Francia stava mantenendo relazioni diplomatiche strette con i dirigenti Hutu responsabili del genocidio[7]; Israele vendeva armi al governo Hutu[8]; e il Regno Unito e gli Stati Uniti si opponevano a qualsiasi tipo di intervento militare in Ruanda. Dopo il loro fallimento in Somalia, gli Stati Uniti non volevano più impegnarsi militarmente in Africa. Per questo, hanno rifiutato di usare la parola “genocidio”, perché questo avrebbe costretto ad agire loro e gli altri membri delle Nazioni Unite – secondo i termini della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio che avevano firmato loro stessi. Quindi, la comunità internazionale ha lasciato morire migliaia di Tutsi perché affermare che quello che stava succedendo era un genocidio li avrebbe costretti a dare una risposta militare che l’Occidente non voleva dare.

Foto presa nel monumento commemorativo del genocidio dei Tutsi a Kigali, Rwanda.

Tutto sembra un po’ più chiaro ora. Dire apertamente che la Cina sta perpetrando un genocidio contro gli Uiguri avrebbe come conseguenza l’inimicarsi la seconda potenza economica del mondo. Abbiamo visto quanto la Cina da sola poteva paralizzare il mondo intero all’inizio della crisi sanitaria ed economica provocata dal Covid-19 – il crollo del mercato azionario, il blocco della produzione eccetera… Se l’Occidente e l’ONU possono ancora permettersi di prendere posizione, lo fanno soltanto con grande timidezza[9]. Come dice un articolo del giornale france Libération, pubblicato un anno fa, “la comunità internazionale non può più ignorare le atrocità condotte contro il popolo Uiguro, ma evita di parlarne per paura di ritorsioni economiche”[10]. Più precisamente, dire che lo Stato Cinese stia perpetrando un genocidio sugli Uiguri avrebbe come conseguenza l’obbligo di un intervento militare contro la Cina. In un contesto dove l’equilibrio della pace internazionale è così fragile, e dove il mondo intero dipende completamente della tecnologia e delle competenze cinesi per sopravvivere, qual è il valore di qualche migliaio di musulmani dello Xinjiang?

Non posso fare a meno di constatare che riconosciamo più facilmente il genocidio dopo che ha avuto luogo invece che mentre sta avendo luogo. Siamo ancora lontani dal poter “prevenire” i genocidi. Al massimo siamo capaci di portare davanti alla giustizia i responsabili dopo i fatti. Al di sopra di tutto questo, la Cina ha l’intelligenza di saper organizzare un genocidio “moderno”, senza sangue né cadaveri, pianificato sul lungo-termine, e sulla base del controllo delle nascite e dell’ assimilazione forzata – sperando magari di poter giustificare la sparizione di un’etnia intera con il lavoro naturale del tempo.

Non riesco a concludere con parole ottimiste, allora vorrei lasciare parlare Gaël Faye, autore di Piccolo Paese[11], libro che parla in parte (ma non soltanto) dal genocidio dei Tutsi, citando un estratto della sua “lettera da dentro” inviata ad un amico[12]: “Non credo negli aspetti positivi della quarantena, alle virtù di questi giorni vuoti. Questa situazione soprattutto ci pone di fronte al fallimento delle nostre società e fa apparire sotto una luce intensa le nostre fragilità. Ovviamente, come tutti, prevedo “il giorno dopo” ma temo che le promesse del “mai più” non andranno più lontano dalla prossima pubblicità. Questo mese di Aprile mi fa ricordare che veniamo, tu ed io, da una Storia che spara a bruciapelo. Nella primavera 1994, i “mai più” del ventesimo secolo hanno risuonato nel vuoto mentre le nostre famiglie scomparivano dalla faccia della Terra. Era ventisei anni fa, nell’indifferenza generale. Che insegnamenti abbiamo tratto? […] Tutti i nostri ‘’Purtroppo!’’, i nostri ‘’a che serve?’’ ci preparano pazientemente alla fine del mondo. Ma possiamo anche cambiare il corso della Storia se smettiamo di dubitare del bene che possiamo fare.”[13]

Laura Poiret

[1] Fabrizio De Andrè, Disamistade.

[2] https://www.grandidizionari.it/Dizionario_Italiano/parola/E/etnocidio.aspx?query=etnocidio

[3] https://www.genocidewatch.com/single-post/2020/07/15/The-Worlds-Most-Technologically-Sophisticated-Genocide-Is-Happening-in-Xinjiang

[4] https://it.wikipedia.org/wiki/Genocidio#Genocidi_riconosciuti

[5] Dizionario francese

[6] http://preventgenocide.org/it/convenzione.htm

[7] Ancora oggi, le relazioni diplomatiche tra il Rwanda e la Francia sono molto tese e il ruolo della Francia nel genocidio ancora non è stato chiarificato.

[8] Israele ha deciso nel 2016 di mantenere sigillati gli archivi delle loro vendite di arme al Rwanda per “non nuocere alla sua sicurezza”. (https://www.timesofisrael.com/records-of-israeli-arms-sales-during-rwandan-genocide-to-remain-sealed/)

[9] Ad’eccezzione magari degli Stati Uniti, in linea con la politica straniera agressiva contro la Cina condottada Donald Trump.

[10] Traduzione personale. « Ouïghours : au Xinjiang, un lent et silencieux ‘’génocide culturel’’ », scritto da Laurence Defranoux e Valentin Cebron, 05/09/2019 🡪 https://www.liberation.fr/planete/2019/09/05/ouighours-au-xinjiang-un-lent-et-silencieux-genocide-culturel_1749543

[11] Petit Pays nel suo titolo originale. Un film adattato di questo romanzo è uscito in cinema in Francia ad agosto.

[12] « Je ne crois pas aux bons côtés du confinement, aux vertus de ces jours désemplis », Gaël Faye, « Lettres d’Intérieur », da Augustin Trapenard, France Inter, 28/04/2020 🡪 https://www.franceinter.fr/emissions/lettres-d-interieur/lettres-d-interieur-28-avril-2020

[13] Traduzione personale. Ibid.

Il Nüshu: la voce silenziosa delle donne

un estratto della diretta con Giulia andata in onda il 2 maggio sulla nostra pagina facebook.

“Ogni volta che salgo sull’autobus che da Guilin conduce a Jiangyong, guardo fuori dal finestrino e penso alla potenza del yuánfèn 缘分 (un concetto della religione popolare che incarna la “coincidenza fatidica”) che mi ha portata a sentirmi a casa in un luogo così remoto e inesplorato”. 

Giulia Falcini, autrice del libro “Il Nüshu. La scrittura che diede voce alle donne”, CSA Editrice

Così è iniziato il mio viaggio “fisico” alla scoperta di quell’angolo del mondo che, senza saperlo, rappresentava proprio quel pezzo del puzzle che cercavo da tempo. Jiangyong, e in particolare il villaggio di Puwei, hanno rappresentato un incastro perfetto tra il mio amore per la Cina, per il popolo cinese e per la sua millenaria cultura: la sublimazione di ideali che per anni ho ammirato, ma che raramente ho trovato racchiusi in un unico posto. 

Il mio viaggio “spirituale” è nato invece in un’aula di università, quel luogo che spesso consideriamo solo contenitore di nozioni astratte, quella stanza da cui non vediamo l’ora di evadere per dare concretezza alle parole dei manuali. Grazie ai racconti colmi di passione di chi ci narrava la Cina, è proprio all’interno di quelle classi che io ho avuto invece la grande fortuna di poter iniziare a viaggiare con la mente e di innamorarmi di un Paese prima ancora di vederlo dal vivo. Ed è proprio tra quelle mura che sentii parlare per la prima volta del nüshu 女书, e la mia mente decise subito che avrei dovuto approfondirlo, conoscerlo, appassionarmene. E così è stato. 

“Il nüshu: la scrittura che diede voce alle donne” è stata un’altra grande avventura, che mi ha permesso, a ritroso, di riflettere su tanti dettagli delle mie esperienze, di approfondire i particolari di questo splendido fenomeno culturale e di prendere coscienza della bellezza di tanti luoghi e di tante persone. L’idea di questo libro è nata circa due anni fa, quando nell’estate 2018 mi ritrovai a parlare di nüshu con la Prof.ssa Zhao Liming, all’interno del suo studio presso l’Università Tsinghua di Pechino: pensai subito che quei meravigliosi racconti non potevano restare solo per me. 

COS’È DUNQUE IL NÜSHU?

Nüshu significa letteralmente “scrittura delle donne”. La sua pronuncia si basa sul dialetto locale, ovvero quello dei villaggi situati intorno alla contea di Jiangyong, nella provincia dello Hunan, nella Cina meridionale. I caratteri femminili sono circa 396, ad ognuno dei quali corrisponde una sillaba del dialetto. A differenza del cinese dunque, questi ideogrammi trascrivono suoni, non significati e ad ognuno di essi ne corrispondono diversi di quelli cinesi “tradizionali”. Da qui l’importanza del contesto per comprenderne il significato. È difficile stabilire una data precisa per la creazione del nüshu che con molta probabilità avvenne intorno al 1700, ma tale questione è oggetto di continui dibattiti tra gli studiosi. La scrittura femminile nacque sicuramente in risposta alla società patriarcale dell’epoca, che poneva inevitabilmente le donne in una condizione di sottomissione. Un aspetto fondamentale che ha portato alla nascita di questa lingua è il fatto che le ragazze non potessero frequentare la scuola: per rimanere in contatto tra di loro, soprattutto una volta sposatesi, si inventarono dunque un loro modo per comunicare. Il nüshu rappresentò anche un modo per evadere dall’opprimente quotidianità, un mondo parallelo nel quale le donne si rifugiavano, dove sapevano di poter trovare comprensione e dove potevano sfogare il proprio dolore. Non è un caso che, secondo la leggenda, il nüshu venne creato da una ragazza del villaggio di Jingtian che venne scelta come concubina dell’imperatore. La donna non venne ben accolta in corte e la solitudine e la nostalgia per i suoi cari, la portarono a creare una nuova scrittura, differente da quella degli uomini, per dar sfogo ai propri pensieri e farli arrivare ai familiari.  

Quando si pensa al nüshu, è inevitabile parlare di “lingua delle donne e per le donne” perché è proprio da loro che è stata concepita e messa al mondo. È importante però sottolineare che quella femminile, non fu mai una scrittura segreta, anzi, furono semplicemente gli uomini a non interessarsene mai, in quanto creata da quella parte di società considerata incapace di produrre qualcosa di apprezzabile. 

In effetti, se si considerano i luoghi molto piccoli nei quali la cultura nüshu è nata, ha vissuto e continua ad essere tramandata, è impensabile che la parte maschile della società non si fosse mai accorta di quei caratteri romboidali che ricoprivano i tanti oggetti realizzati dalle signore; ed era impossibile che non avessero mai colto le melodie che riecheggiavano nei villaggi. Gli avvenimenti storici e sociali hanno portato ad un grande cambiamento rispetto alla reputazione attribuita alla scrittura femminile: gli uomini hanno iniziato ad interessarsi al nüshu, in contea ne parlano orgogliosi come di un simbolo che caratterizza la loro città e molti di loro sono direttamente impegnati nella promozione di questo fenomeno. E non è un caso che oggi, nei villaggi, non appena le donne cantano, tutti si fermano, compresi gli uomini; e non per dovere o per riverenza, ma perché realmente catturati da questi suoni allo stesso tempo luminosi e struggenti. 

E sono proprio i canti a fungere da vettori dei sentimenti femminili più intimi, profondi e confidenziali, trattando ogni tipo di tema, dai raccolti, alle festività, ai momenti felici, fino a quelli più sconfortanti.

LE PERSONE: SOFFIO VITALE DELLE TRADIZIONI

“I luoghi del Nüshu mi hanno insegnato che si può essere ricchi anche senza acqua corrente in casa e che l’umiltà e il buon cuore sono alla base di ogni grande persona.”

Nonostante i caratteri rappresentino l’aspetto più affascinante di questa cultura, è solo visitando e vivendo i villaggi che orbitano intorno a Jiangyong che ci si può rendere conto di una grande verità: il nüshu non è una lingua, ma un fenomeno culturale. La sua esistenza infatti, è strettamente collegata a quella delle tradizioni locali, delle festività popolari e, soprattutto, delle persone.

Nel mio libro compaiono molti personaggi che hanno vissuto e tramandato il nüshu: Chen Xinfeng e Hu Yanyu sono sicuramente tra i nomi che il lettore non potrà dimenticare. La grande accoglienza che ogni volta mi riservano nella loro abitazione del villaggio di Puwei, mi ha permesso di entrare nel vivo della loro cultura a 360 gradi, di percepire come viene vissuta al giorno d’oggi, di ascoltare tanti racconti, di registrare i colori, i suoni e i gesti di quella che non è

solo una lingua, ma molto, molto di più. Le due -madre e figlia- conservano i tratti tipici delle donne che oltre tre secoli fa ebbero la forza di creare un mondo parallelo a quello che le stava annientando. Difficile esprimere a parole la bontà che le caratterizza, ma è la loro complicità quella che maggiormente colpisce chiunque le osservi mentre intonano i brani nüshu. 
Una volta un’amica mi disse che “nasciamo in un posto, ma poi abbiamo luoghi del cuore dove sappiamo che possiamo tornare sempre”. Io credo di aver trovato il mio, quello che mi manca ogni volta che non sono lì.

Giulia Falcini

Qui di seguito il link al libro. “Il Nüshu. La scrittura che diede voce alle donne”, Giulia Falcini, CSA Editrice: http://www.csaeditrice.it/index.php?option=com_virtuemart&view=productdetails&virtuemart_product_id=404&virtuemart_category_id=1&lang=it

Per vedere la registrazione della diretta invece, clicca sul link:

Luci e ombre del Gigante asiatico: i Diritti Umani in Cina

La situazione dei diritti umani nella Repubblica Popolare Cinese è tutt’oggi estremamente controversa. A dispetto dell’apertura economica e delle riforme degli ultimi anni, molte associazioni internazionali sui diritti umani continuano a bollare il sistema legale cinese come “arbitrario, corrotto ed incapace di fornire la giusta salvaguardia[1] a causa delle ancora numerose violazioni di norme internazionali.

La recente emergenza Coronavirus ha evidenziato ancora più chiaramente le falle esistenti in termini di tutela dei diritti fondamentali, esponendo la Cina allo sguardo indagatore della comunità internazionale. Come affermato da Nicholas Bequelin, Direttore di Amnesty International per l’Asia, i provvedimenti varati da Pechino contro il virus hanno infatti comportato una limitazione di importanti diritti fondamentali: il diritto alla salute, anzitutto, in termini di libertà di accesso alle cure mediche, alle informazioni e libertà dalle cure mediche prive di consenso. Ancora, la libertà dagli arresti arbitrari, libertà di movimento e di espressione.[2] A ben vedere, infatti, nelle settimane di crisi il personale medico di Wuhan ha lamentato la scarsità delle risorse per gestire gli alti numeri del contagio. Gli organi di informazione locali hanno riferito di pazienti respinti da molti ospedali per mancanza di posti letto, di strutture mediche sprovviste di accesso ai test diagnostici fondamentali, di persone impossibilitate ad arrivare velocemente agli ospedali a causa del blocco dei trasporti pubblici. Addirittura, della difficoltà di portare fuori casa i corpi delle persone decedute a causa della malattia.[3] Problematiche che, è importante sottolineare, hanno evidenziato le fragilità di tutti i Paesi toccati dall’emergenza sanitaria, Italia inclusa. Ciò che pesa ulteriormente in Cina, però, è una realtà politica che ha spesso esposto la dirigenza ad insinuazioni di scarsa trasparenza e tentativi di mistificazione. La chiusura imposta a molte metropoli, a partire dalla provincia di Hubei, è stata affiancata da misure draconiane come sistemi di controllo stringenti, schedatura obbligata dei cittadini e censura di notizie ritenute destabilizzanti. Le persone che hanno cercato di condividere informazioni circa il Coronavirus sono state prese di mira dalle autorità: caso emblematico è quello del medico Li Wenliang, il primo ad aver lanciato l’allarme, ammonito per aver “diffuso false informazioni sul web”.[4] Come afferma Bequelin “Censurare legittime informazioni sui quotidiani o sui social media non è funzionale ad alcun obiettivo di salute pubblica (…) limitare la libertà d’informazione e sopprimere il dibattito in nome della stabilità produce gravi rischi e può essere assai controproducente”.[5]

Chongqing, nel sud-ovest della Cina, foto di Antonella Iavazzo

L’assenza di un sistema democratico e di una effettiva tutela dei diritti umani in Cina sembrerebbe una conseguenza della cosiddetta “specificità cinese”, vale a dire aspetti ben radicati della tradizionale cultura politica e civiltà nazionale. Prima fra tutti, la visione confuciana per cui solo un sistema altamente centralizzato e gerarchizzato possa garantire ordine ed armonia politico-sociale.[6] Questo è quanto ha ribadito anche lo studioso Antonio Cassese, secondo il quale per i Paesi Socialisti i diritti umani non sono connaturati agli individui né preesistono allo Stato, sono bensì accordati da quest’ultimo, che può dunque limitarli e circoscriverli se necessario.[7] Tale substrato culturale, sommato all’eredità maoista che ancora oggi grava sul Paese, illustra bene quanto la tutela giuridica dei diritti umani in Cina sia un fenomeno relativamente recente. Fino agli anni Ottanta, infatti, l’attività giurisdizionale era svolta in modo arbitrario dalle Guardie Rosse e dai comitati rivoluzionari, seguendo strenuamente l’imperativo di “la politica al primo posto” e “appoggiare la guida del Partito”.[8] La stessa espressione “diritti umani” (renquan) 人权 aveva una connotazione dispregiativa, espressione dell’ideologia capitalista impiegata in Occidente per mascherare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.[9] Solo la graduale liberalizzazione e apertura inaugurata a partire dal 1978 ha incoraggiato la dirigenza a rispondere più opportunamente al bisogno di tutela dei diritti umani. Sul fronte normativo, la Cina ha compiuto evidenti sforzi per adattare le proprie leggi e garantire un rispetto e tutela crescenti di tali diritti, essendo riconosciuti dalla comunità internazionale di cui fa parte a pieno titolo.[10] La Costituzione del 1982, ad esempio, garantisce ai cittadini un’ampia varietà di diritti politici, personali, economici, sociali e culturali. Nel 2004, l’art. 33 della Costituzione ha visto l’aggiunta del comma per cui “lo Stato rispetta e protegge i diritti umani” e, nel 2010, la pubblicazione del primo National Human Rights Action Plan ha sancito l’accettazione del principio di universalità dei diritti umani. Parallelamente, la Cina ha aderito a numerose convenzioni internazionali riguardanti materie delicate come la tortura, i diritti dei minori e dei lavoratori.[11]                                                                                                                                                                                 

Chongqing, nel sud-ovest della Cina, foto di Antonella Iavazzo

I progressi compiuti sino ad oggi, non possono però impedirci di notare come la protezione e l’esercizio di tali libertà rimanga ancora estremamente limitato, non solo a causa delle vaghe definizioni date di tali diritti, ma anche per l’inclusione di numerose eccezioni che consentono di derogarvi facilmente. Come chiarito dall’art. 51, in Cina l’esercizio dei diritti e delle libertà dei cittadini è condizionato all’interesse collettivo. I diritti umani, nella pratica, non sono considerati in termini assoluti, bensì in relazione alla crescita e al benessere della collettività, soprattutto in ambiti soggetti a forti tensioni in cui l’interesse pubblico è chiaramente prioritario rispetto a quello dei singoli.[12] In riferimento alla sopracitata Convenzione contro la tortura, ad esempio, nonostante la dirigenza abbia rafforzato la proibizione della tortura prevedendo anche sanzioni per eventuali abusi, tutt’oggi manca ancora una definizione assoluta del concetto di tortura. Ciò consente la possibilità di limitare facilmente tali diritti a favore del mantenimento di ordine e stabilità interni.[13] Il rapporto annuale di Amnesty 2017/2018 ben illustra il continuo inasprimento del potere di dissenso e censura delle autorità cinesi attraverso l’elaborazione e l’applicazione di nuove leggi sulla sicurezza nazionale. L’istituzione di associazioni e organizzazioni di società civile si scontra ancora con i ferrei limiti di controllo posti alle attività associative. Il 1° gennaio 2017 la nuova legge sulla gestione delle ONG straniere ha autorizzato il congelamento dei conti bancari, la vendita dei locali ed anche la detenzione del personale delle ONG non registrate in Cina, senza alcun tipo di tutela del diritto di riservatezza, della libertà di espressione e contro la detenzione arbitraria. Numerosi attivisti, inoltre, sono diventati bersaglio di una repressione senza precedenti avviata dal governo, arrestati o condannati per “sovversione del potere dello stato” e soggetti a tortura e maltrattamenti durante la detenzione. [14]   

Chongqing, nel sud-ovest della Cina, foto di Antonella Iavazzo

Il Partito esercita un ampio controllo anche su ogni aspetto della pratica religiosa: l’organizzazione ed il culto delle religioni non riconosciute sono violentemente repressi. Il 2018 ha incoraggiato una revisione di norme e regolamenti su questioni religiose, con l’obiettivo di limitare “infiltrazioni ed estremismo”: minoranze religiose quali la lamaista tibetana e musulmana uigura, pur essendo riconosciute, sono soggette e forti restrizioni a causa del loro potenziale collegamento con le correnti separatiste presenti nelle provincie del Tibet e dello Xinjiang.[15] Per quel che riguarda la libertà d’espressione, è ormai noto il controllo stringente esercitato dal Partito sulle informazioni, migliaia di siti web e social network sono tutt’oggi bloccati, inclusi Facebook, Instagram e Twitter. Dal 2017 è stata condotta un’indagine sui principali fornitori di servizi internet quali Tencent’s Wechat, Sina Weibo e Baidu’s Tieba, identificando sulle loro piattaforme account di utenti che “diffondevano informazioni pericolose per la sicurezza nazionale, pubblica e l’ordine sociale”.[16] Anche in riferimento alla libertà e dignità personale, permane tutt’oggi l’idea per cui le scelte personali debbano cedere il passo all’interesse pubblico. Un esempio è il diritto alla riproduzione, fortemente limitato dalla politica del “figlio unico” che impone alle coppie il dovere di praticare la pianificazione familiare, punisce con sanzioni pecuniarie le nascite fuori piano e viene accompagnata da strumenti di pressione psicologica e sociale. Anche il diritto penale cinese rimane caratterizzato da norme vaghe e strettamente connesse al controllo politico, come i reati d’opinione, quelli a danno dei segreti di stato o quelli genericamente definiti “contro la sicurezza pubblica e l’ordine economico socialista di mercato”.[17] Il governo continua di fatto a nascondere la reale portata dell’uso della pena di morte.

Tale riflessione mostra come, rispetto al passato, gli spazi di autonomia soggettiva a disposizione dei cittadini cinesi siano enormemente cresciuti. In qualità di attore protagonista della comunità internazionale, la Cina si sta dimostrando disposta a dialogare per la ricerca di soluzioni condivise e per familiarizzare sempre di più con la protezione dei diritti umani ed i presupposti etici che li sorreggono. Esistono tuttavia dei limiti a questo processo di adattamento, quali strumenti di gestione del potere che la dirigenza cinese considera irrinunciabili, pur contrastando con i diritti umani considerati fondamentali. Tali tendenze, seppur spiegabili alla luce dell’esigenza prioritaria di mantenere l’ordine e la stabilità nazionale, dimostrano è ancora lunga strada da compiere prima di raggiungere la piena affermazione dei diritti umani e la conseguente abolizione della pena di morte.

Antonella Iavazzo


[1] https://reporterspress.it/cina-diritti-umani-2/

[2] https://www.amnesty.it/coronavirus-e-diritti-umani-sette-cose-da-sapere/

[3] https://www.amnesty.it/coronavirus-e-diritti-umani-sette-cose-da-sapere/

[4] https://www.ilpost.it/2020/02/07/la-doppia-morte-di-li-wenliang/

[5] https://www.amnesty.it/coronavirus-e-diritti-umani-sette-cose-da-sapere/

[6] https://www.tuttocina.it/Mondo_cinese/046/046_corr.htm

[7] Cassese Antonio, I diritti umani oggi, Economica Laterza, Bari, 2009.

[8] http://www.cosmopolisonline.it/articolo.php?numero=III12008&id=16

[9] http://www.cosmopolisonline.it/articolo.php?numero=III12008&id=16

[10] http://www.acatitalia.it/newsite/content/tortura-la-cina-e-la-tutela-dei-diritti-civili

[11] http://www.acatitalia.it/newsite/content/tortura-la-cina-e-la-tutela-dei-diritti-civili

[12] http://www.cosmopolisonline.it/articolo.php?numero=III12008&id=16

[13] http://www.cosmopolisonline.it/articolo.php?numero=III12008&id=16

[14] https://www.amnesty.it/rapporti-annuali/rapporto-annuale-2017-2018/asia-e-pacifico/cina/

[15] https://www.amnesty.it/rapporti-annuali/rapporto-annuale-2017-2018/asia-e-pacifico/cina/

[16] https://www.amnesty.it/rapporti-annuali/rapporto-annuale-2017-2018/asia-e-pacifico/cina/

[17] https://www.amnesty.org/en/documents/asa17/5849/2017/en/

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