L’UE ha bisogno di una reazione economica congiunta

featured image “CC-BY-4.0: © European Union 2019 – Source: EP”

La pandemia del covid-19 ha colpito violentemente l’Europa. Il nuovo coronavirus, che ha infettato l’essere umano per la prima volta nella regione cinese dell’Hubei, sta cambiando la vita di tutti noi e stravolgendo il quadro politico ed economico globale. La risposta dei Paesi europei nella fase iniziale dell’emergenza è stata poco coordinata e, nella maggior parte dei casi, tardiva. L’impatto del virus è stato particolarmente severo nelle regioni più economicamente sviluppate: Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto in Italia; in Spagna, specialmente nella regione di Madrid e in Catalogna; in Francia nell’Ile de France, regione di Parigi; in Germania maggiormente in Baviera, Nord Reno – Westfalia e Baden Württemberg, in Svezia nella contea di Stoccolma e in Belgio nella regione delle Fiandre. La forte integrazione tra le economie dei vari Paesi europei è stata anche, inevitabilmente, un eccezionale mezzo di diffusione del virus e rischia di esserlo ancor di più in un futuro prossimo, se mancherà un coordinamento a livello europeo per organizzare la riapertura.

(mappa interattiva sulla diffusione del covid)

Le misure restrittive imposte nei Paesi più colpiti, Italia e Spagna, sono molto stringenti, poiché permettono di continuare a svolgere soltanto attività produttive essenziali e strategiche per la gestione dell’emergenza sanitaria. Invece nella maggior parte dei Paesi UE si è optato per una chiusura delle attività commerciali a contatto con il pubblico, senza chiudere attività produttive[1].  Questi provvedimenti, seppur necessari, tuttavia rischiano di affossare l’economia europea.
L’impatto della crisi economica sarà diverso Paese per Paese, dipenderà dalla severità delle misure restrittive, dai danni diretti e indiretti della pandemia e soprattutto dalla capacità finanziaria dei singoli Stati di supportare la propria economia con la liquidità necessaria e con interventi rapidi e precisi.

La necessità e le criticità di finanziare la spesa pubblica con il debito

Le principali fonti di finanziamento dello Stato sono la tassazione e l’emissione di titoli di debito sul mercato. Nel mezzo di una pandemia, con imprese in ginocchio e la necessità di mantenere in vita il sistema produttivo ed economico, non è auspicabile un aumento a breve della tassazione. È inevitabile aumentare il debito pubblico per contenere l’impatto che una annunciata recessione economica avrà sulla vita dei cittadini. Gli Stati, quando richiedono un prestito sul mercato per finanziare la propria spesa emettono titoli di debito, chiamati bond o titoli di Stato. Come ogni prestito, anche i titoli di Stato presentano il rischio che il loro valore diminuisca o che, in situazioni critiche, il debitore, lo Stato, non riesca a rimborsare interamente il capitale.
In linea generale, più gli investitori – banche, istituzioni finanziarie, fondi pensione e risparmiatori – riterranno probabile che il prestito non sia ripagato, più richiederanno un alto rendimento per il rischio che stanno correndo. Allo stesso tempo, più sarà alto il rischio percepito dagli investitori più sarà costoso per lo Stato indebitarsi. Gli eventi politici, economici e l’ammontare di debito emesso possono avere un impatto sulle finanze dello Stato. Inoltre, avranno anche un effetto sulle aspettative degli investitori e sul rendimento dei titoli di Stato. Spesso si parla di spread tra i titoli tedeschi e i titoli italiani decennali per valutare l’aumento del rischio relativo al debito italiano. Uno degli indicatori più utilizzati per quantificare la dimensione del debito di uno Stato è il rapporto Debito/PIL (per saperne di più).

La situazione dei debiti pubblici nei maggiori Paesi UE

Figura 1: serie storica debito/PIL dal 1995 al 2019. Fonte Eurostat.

A questo punto appare evidente che non tutti i Paesi europei si trovano nella stessa condizione. Spagna e Italia, i Paesi attualmente più colpiti dall’epidemia, sono anche quelli con il debito pubblico più elevato. L’Italia negli ultimi anni ha avuto una crescita del PIL molto bassa[2], il suo debito/PIL è arrivato ad un valore di oltre il 134% dal 2018[3]. Anche la Spagna, aveva allo stesso anno, un rapporto Debito/PIL alto 97.6%[4]. Negli ultimi anni, però, ha avuto una consistente crescita del PIL, circa il 2% nel 2019 e una crescita media del 2.8% annuo dal 2015[5]. Tuttavia, prima della crisi del 2007 il rapporto Debito/PIL spagnolo era al 35%[6]. L’incremento enorme del debito durante la crisi finanziaria ha reso necessarie misure di riduzione della spesa pubblica e altre riforme per permettere al Paese di restare competitivo e poter continuare a finanziarsi sul mercato.
Italia e Spagna, dunque, si trovano tra due fuochi, sotto una pressione senza precedenti per la crisi sanitaria e dovendo sostenere spese ingenti per la ricostruzione della propria economia, senza potersi finanziare con debito a costi bassi.
Già al 21 aprile, il tasso di rendimento sui titoli di stato decennali (BTP) per l’Italia era del 2,02% [7]e dello 0,97%[8] per la Spagna. Per avere un termine di paragone è sufficiente sapere che i titoli tedeschi hanno un tasso di rendimento negativo di – 0,481%[9], avendo un rapporto Debito/PIL pari al 61,9%[10]. I Paesi Bassi hanno un tasso di rendimento negativo di -0,177% [11]e la Francia di 0,06%. [12]All’aumentare del debito per sostenere le misure economiche e sanitarie di contrasto alla crisi, questi tassi di rendimento aumenteranno, rendendo più costoso il finanziamento per tutti i Paesi UE, ovviamente in maniera più accentuata per i Paesi più a rischio.

Figura 2: serie storica 1993 – 2020 tasso di rendimento sui titoli di Stato decennali. Fonte: BCE

 

Il dibattito e le misure dell’UE


La crisi sanitaria del coronavirus sta colpendo tutto il mondo. Non si può definire virtuoso un Paese meno colpito né infierire con giudizi morali insensati sui Paesi più vessati. Non è una semplice crisi finanziaria, è una crisi simmetrica, come è stato spesso rimarcato, però l’impatto della crisi e le tempistiche saranno diverse Paese per Paese. Sin dall’inizio si è scatenato uno scontro tra sostenitori della necessità di emettere titoli di debito comune per avere una risposta congiunta – tra i quali Francia, Spagna e Italia – e rigoristi – tra i quali Germania e Olanda – convinti di poter sostenere da soli i costi della crisi. In un primo momento, i Paesi appartenenti al blocco rigorista sembravano disposti ad aiutare i Paesi più colpiti solo con strumenti di intervento economico soggetti a condizionalità su tempistiche e modalità di riduzione del debito pubblico – il famoso Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) a condizionalità rafforzate.
Contemporaneamente, le istituzioni europee hanno dato il loro sostegno ai Paesi più in difficoltà con un piano straordinario di acquisti di titoli di Stato da parte della Banca Centrale Europea, che ha finora permesso di mantenere bassi i rendimenti sui titoli di Stato italiani. Sono state adottate anche altre importanti misure economiche per 540 miliardi[13]. Quanto fatto, tuttavia, non è sufficiente per superare la crisi. L’idea di emissioni di debito comuni – eurobond o recovery bond – per finanziare la ricostruzione economica può essere la soluzione giusta per emettere debito a costi minori per i Paesi più in difficoltà e per un ulteriore passo in avanti nell’integrazione europea.

Agire insieme è nell’interesse di tutti


Non è solo solidarietà europea. Davanti ad una recessione del PIL dell’eurozona del 7.5%[14] non esistono Paesi forti, né vie d’uscita individuali. Inoltre, l’UE è un’organizzazione sovranazionale che condivide da anni i benefici di un’area economica aperta, con libertà di movimento per lavoratori, merci e capitali, e ha maturato anche un’interdipendenza tra i vari Paesi. Un riscontro si può avere guardando ai Paesi di destinazione delle esportazioni di Olanda, Spagna, Francia, Germania e Italia.

 

 
Figura 8: Serie storica export/PIL dal 2008 al 2019. Fonte: Eurostat.

 

Come è possibile notare dai grafici precedenti, l’export è una componente importante del PIL di tutti gli Stati analizzati, in particolare l’Olanda nel 2019 ha registrato un export/PIL pari all’82,5% e la Germania al 46,9%[15]. Analizzando i Paesi di destinazione, risulta che la maggior parte di questo export è stato verso altri Paesi UE. l’Italia è il quinto Paese per quota di esportazioni ricevute dall’Olanda e il sesto per la Germania. La Spagna è il settimo per l’Olanda e l’undicesimo per la Germania. Viceversa, Germania e Olanda sono anche destinazioni di quote fondamentali dell’export di Italia e Spagna. [16]Le economie europee sono interconnesse, ora è il turno della classe dirigente europea di trovare un accordo per ulteriori misure forti e congiunte contro la crisi. Ci vorrà del tempo, una revisione dei trattati potrebbe essere necessaria e si dovranno aumentare i contributi al bilancio UE, ma è nel pieno interesse di tutti gli Stati membri. Altrimenti, anche la crisi economica rischia di seguire le stesse linee di contagio della pandemia. I rischi sono una depressione economica e un’ascesa dei partiti euroscettici che potrebbero compromettere l’intero progetto europeo.

Michele Corio


Riferimenti:

[1] https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-archivio-studi-e-analisi-coronavirus-e-blocco-delle-attivita-cosa-succede-all-estero

[2] https://data.worldbank.org/indicator/NY.GDP.MKTP.KD.ZG?locations=IT

[3] http://appsso.eurostat.ec.europa.eu/nui/show.do?dataset=gov_10dd_edpt1&lang=en

[4] https://ec.europa.eu/eurostat/tgm/table.do?tab=table&init=1&language=en&pcode=teina225&plugin=1

[5] https://data.worldbank.org/indicator/NY.GDP.MKTP.KD.ZG?locations=ES

[6] http://appsso.eurostat.ec.europa.eu/nui/show.do?dataset=gov_10dd_edpt1&lang=en

[7] https://www.investing.com/rates-bonds/italy-10-year-bond-yield

[8] https://www.investing.com/rates-bonds/spain-10-year-bond-yield

[9] https://www.investing.com/rates-bonds/germany-10-year-bond-yield

[10] http://appsso.eurostat.ec.europa.eu/nui/show.do?dataset=gov_10dd_edpt1&lang=en

[11] https://www.investing.com/rates-bonds/netherlands-10-year-bond-yield

[12] https://www.investing.com/rates-bonds/france-10-year-bond-yield

[13] https://jeuneurope.com/ue-e-coronavirus-il-punto-della-situazione/

[14] https://www.imf.org/en/Publications/WEO/Issues/2020/04/14/weo-april-2020

[15] https://ec.europa.eu/eurostat/databrowser/view/TET00003/default/table

[16] https://oec.world/en/

I mercati finanziari hanno già scontato gli effetti del coronavirus?

 

Nell’attuale contesto di prolungata incertezza, le prospettive di crescita economica globale sono cambiate in modo significativo a causa degli effetti del COVID-19. L’intera economia sta affrontando una serie di sfide macroeconomiche e strutturali fondamentali, che stanno portando a un notevole rallentamento della crescita. La crisi sanitaria è rapidamente diventata una crisi economica e si sta gradualmente trasformando in una crisi finanziaria.

Il recente crollo del mercato azionario è probabilmente solo l’inizio di una serie di sfortunati eventi. La parziale ripresa tentata dai mercati nelle ultime settimane è solo una piccola deviazione rispetto al percorso negativo intrapreso dall’inizio della crisi. L’intraday volatility, l’oscillazione dei prezzi al rialzo e al ribasso durante la sessione di negoziazione, può rappresentare una prova dell’incertezza degli investitori in merito alle performance finanziarie future di un asset o dell’intero mercato finanziario. Recentemente questo indicatore ha raggiunto livelli estremi. Un’ulteriore prova delle preoccupazioni degli investitori è data dall’indice di volatilità (VIX[1]), misura tipica del sentiment del mercato. Il VIX ha toccato l’incredibile limite di 82 il 16 marzo, a testimonianza della grandissima incertezza generata sui mercati dalla pandemia basti pensare che negli ultimi 5 anni il suo valore più alto registrato di era stato di 30 e il valore medio per lo stesso periodo è stato di 15[2]. Osservando la serie storica, notiamo che il valore raggiunto è stato persino superiore alla grave crisi del 2008.

Serie storica dell’indice VIX dal 2007 ad aprile 2020.

Innegabilmente, il primo trimestre del 2020 è stato uno dei peggiori della storia e, per gravità e velocità, può essere paragonato solo a quello della crisi finanziaria del 1929. Tuttavia, abbiamo elementi per ritenere che gli effetti del coronavirus non siano ancora completamente integrati nei prezzi delle azioni. Ci sono due fattori cruciali da considerare.

In primo luogo, prima del coronavirus, gli analisti si aspettavano una correzione del mercato. Era stato stimato che i mercati finanziari fossero fortemente sopravvalutati (il valore di mercato era estremamente superiore al valore fondamentale). Ad esempio, il valore intrinseco dell’S&P 500 era stato valutato di circa il 18% inferiore rispetto al suo prezzo di mercato e, al 7 di Aprile, l’indice americano aveva lasciato circa il 20% sul terreno dall’inizio della crisi.

Andamento dell’indice S&P500 da gennaio 2020 ad Aprile 2020.

Il secondo fattore riguarda la guerra dei prezzi del petrolio tra Emirati Arabi e Russia, che ha notevolmente contribuito a un ulteriore calo del mercato azionario. Per far fronte alla drastica riduzione del consumo di petrolio (domanda) dovuta al lockdown globale, i produttori di petrolio avrebbero dovuto tagliare la propria produzione (offerta) per sostenere il prezzo. Sfortunatamente, a causa di problemi politici, i due paesi hanno fatto il contrario, iniziando a produrre più barili al giorno, generando turbolenze e aumentando l’incertezza. L’inevitabile conseguenza è stata un calo drastico del prezzo del petrolio, il quale si è più che dimezzato in poche settimane. Giovedì 02 Aprile, il tweet di Trump sull’accordo tra Emirati Arabi e Russia ha condotto la ripresa dei prezzi del petrolio e il prezzo dei future[3] ha guadagnato circa il 30% in pochi giorni. In ogni caso, l’incontro cruciale è stato l’OPEC+ dove, eccezionalmente, sono stati invitati Texas e Canada ed è stato firmato un accordo per tagliare la produzione di petrolio di 10 milioni di barili al giorno. Nonostante ciò, secondo Rystad Energy[4] (una società indipendente di ricerca energetica), le spese di capitale globali (CapEx) – misura dell’importo investito da un’azienda nel rinnovamento o nel mantenimento di proprietà, edifici, impianti industriali, tecnologie o attrezzature – per esplorazione e le aziende di produzione dovrebbero scendere fino a 100 miliardi di dollari quest’anno, circa il 17% in meno rispetto ai livelli del 2019. Nel 2021 il calo potrebbe essere soggetto a un’ulteriore intensificazione poiché molte società (ad esempio Eni) hanno già annunciato che la riduzione del CapEx aumenterà fino al 30-35%[5]. La crisi petrolifera ha già causato alcuni problemi: McDermott, una delle principali aziende del settore, ha annunciato di aver presentato istanza di fallimento (chapter 11[6]), annullando tutte le azioni di common stock[7].

Dopo queste considerazioni, dovremmo chiederci se il valore di mercato offra attualmente un prezzo scontato. Ad oggi, la risposta è molto incerta, ma come abbiamo spiegato, è molto probabile che gli effetti del coronavirus non siano stati scontati nei prezzi delle azioni. Inoltre, i risultati del primo trimestre 2020 non sono stati ancora resi noti. Insieme ai probabili esiti negativi, le prospettive per la maggior parte delle aziende e i recenti downgrade delle agenzie di rating, rendono ragionevole credere che il mercato sia ancora costoso, probabilmente anche più di prima dell’esplosione del coronavirus.

Il mercato azionario non è l’unico a soffrire la crisi. Lo shock provocato dal coronavirus ha generato ciò che il Financial Times ha definito come “i semi della prossima crisi del debito”. Secondo l’Institute of International Finance[8], il rapporto tra il debito totale e il Prodotto interno globale ha raggiunto il 322% nel terzo trimestre del 2019. Negli ultimi dieci anni, le aziende si sono adagiate su prestiti a basso costo, ma le stime delle agenzie di rating dimostrano come una crisi sanitaria globale possa spingere verso una rivalutazione immediata del rischio di credito, sollevando dubbi sulla qualità delle imprese: stabilità e capacità di generare flussi di cassa a breve e medio termine. Inoltre, nel mercato del debito, la guerra sui prezzi del petrolio ha portato la maggior parte delle obbligazioni delle compagnie petrolifere ed energetiche nella distressed area[9].

Nonostante ciò, finanziariamente parlando, non tutti i mali vengono per nuocere. In effetti, questo creerà molte opportunità di fusioni e acquisizioni. Prezzi azionari scontati e una peggiore struttura del debito possono creare occasioni per società con fondamentali solidi. Le società solide con una forte capacità di generare cassa possono sfruttare l’ambiente favorevole per indirizzare le imprese con prospettive positive a lungo termine ma con attuali problemi di solvibilità e liquidità.

Infine, la comprensione dei movimenti dei prezzi dell’oro durante il periodo tumultuoso è di grande importanza. L’oro è definito come un bene rifugio o un’attività difensiva in quanto dovrebbe avere prestazioni migliori durante i periodi di recessione e limitare la pressione al ribasso. Nonostante ciò, con una prima analisi sembra che il metallo prezioso abbia deluso le aspettative. Il recente sell-off ha caratterizzato negativamente la performance dell’oro che è stata oggetto di un risultato contraddittorio. Tuttavia, le variazioni del prezzo dell’oro sembrano essere coerenti con la storia, in periodi di estrema volatilità. È molto comune che i gestori di fondi cerchino liquidità quando i mercati sono molto volatili al fine di soddisfare le richieste di margine delle attività più rischiose. Durante la crisi finanziaria del 2008, il prezzo dell’oro è diminuito di quasi il 20% prima di risalire a un valore del 170% superiore nel 2011[10]. Inizialmente si è ridotto a causa delle restrizioni di liquidità, ma, successivamente, dopo l’immissione di liquidità da parte delle banche centrali nei sistemi finanziari, il prezzo è salito nel modo tradizionale. Possiamo aspettarci un comportamento simile anche nei prossimi mesi.

Prezzo dell’oro dal 2007

Al di là di ogni dubbio, il coronavirus ha evidenziato come le nostre vite sono interconnesse. La pandemia ha causato un blocco globale e metà della popolazione mondiale è in quarantena. Le persone stanno cambiando il loro stile di vita, cambiando il loro modo di lavorare, socializzare, giocare, parlare e imparare. La crisi sanitaria influenzerà inevitabilmente intere industrie dal punto di vista economico e finanziario, colpendo permanentemente il mondo. Alcuni settori, come il turismo, l’automobilistico, le compagnie aeree, risentiranno maggiormente dell’instabilità globale, affrontando la sfida più ardua. Nonostante ciò, al giorno d’oggi, non siamo ancora pienamente consapevoli degli effetti che il coronavirus porterà sul mercato ma si può prevedere un sostanziale effetto sia sulla domanda che sull’offerta nei prossimi mesi. Pertanto, è ragionevole prevedere un ulteriore abbassamento del prezzo delle azioni e un andamento negativo del mercato in futuro.

scritto da Gianlorenzo Zeccolella


[1] Il VIX (Chicago Board Options Exchange’s Volatility Index) è un indice che rappresenta la volatilità implicita nel prezzo di mercato delle opzioni basate sul S&P500.

[2] https://www.investing.com/indices/volatility-s-p-500

[3] I future sono strumenti finanziari derivati, che permettono di effettuare l’acquisto o la vendita di un’azione – o un altro strumento finanziario – stabilendo il prezzo nella data di accordo ed effettuando lo scambio in una data futura. Il valore dell’operazione si può valutare comparando il prezzo per il quale ci si era accordati alla data iniziale e il valore di mercato dello strumento finanziario alla data di scambio. I contratti future sono lo strumento principale commerciato per il petrolio.

[4] https://www.rystadenergy.com

[5]https://www.eni.com/en-IT/media/press-release/2020/03/eni-covid-19-update-2020-2021-business-plan-revision.html

[6] Chapter 11 è un tipo di bancarotta che prevede la riorganizzazione del debito, degli assets e delle attività del debitore secondo il diritto fallimentare statunitense. https://www.investopedia.com/terms/c/chapter11.asp

[7] https://www.mcdermott.com/Restructuring

[8] https://www.iif.com

[9] Financial distress è una situazione nella quale la società non riesce ad adempiere le proprie obbligazioni finanziarie, potrebbe essere incapace di ripagare i propri debiti o una parte di essi

[10] https://www.investing.com/commodities/gold


 

 

Salvatore o traditore della patria? Tsipras, l’Europa ed il nuovo volto della Grecia dopo le elezioni

Mappa delle cittá fondate dagli Antichi Greci
Fonte: My country? Europe

Zante. E’ la prima cosa che ricordo della Grecia, l’isola che nel mio immaginario ha sempre rappresentato la poesia più bella della letteratura italiana, A Zacinto, di Ugo Foscolo. La seconda, andando un frammento avanti con la memoria, sono le distese infinite di oliveti che si aprono dal nostro pullman. E’ l’estate del 2009, non ho nemmeno 18 anni, ed il primo viaggio sull’altra costa dell’Adriatico sarà il primo di una lunga serie alla scoperta dei tanti luoghi affascinanti che l’Europa sa offrire. La guida, sulla cinquantina, oltre ad una sottile indisponenza verso i turchi, ci introduce a quello che è il tempio della civiltà greca, là dove i primi giochi, che poi divennero le olimpiadi, nacquero. Siamo a Katakolon, città della Grecia occidentale dove una civiltà nasce, cresce, e lascia tanti dei suoi puntelli in quella che è la società di oggi. L’Ellade, la cultura mediterranea, l’Europa. E’ proprio un paradosso che gli stessi giochi Olimpici del 2004, la cui gestione -per usare un eufemismo- non è stata troppo chiara[1], siano stati la scintilla che ha fatto esplodere la crisi economica, per poi dare i suoi frutti più sanguinosi un decennio più tardi.

In Grecia si è votato ad inizio mese di luglio, e lo scenario politico si è ribaltato completamente rispetto a cinque anni fa. La formazione popolare di Nea Dimokratia ha vinto le elezioni, raggiungendo la soglia della maggioranza assoluta in Parlamento, e relegando Syriza all’opposizione dopo quattro anni di governo fatto di montagne russe e scontri frontali con l’Unione Europea.

Sono tanti gli spunti che il caso greco può offrire. Dopo un riassunto del rapporto della Grecia con l’Unione Europea negli ultimi anni, mi concentrerò saranno due; la figura di Alexis Tsipras e le sue abilità politiche eccellenti, e come il sistema politico greco si è strutturato a seguito delle vicissitudini politiche dell’ultimo decennio. 

La Grecia ha vissuto un’era a parte negli ultimi anni, costantemente nell’occhio del ciclone, con il rischio default che la ha attraversata fino a metterla sul punto del non ritorno. Ma i problemi della crisi greca hanno radici BEN più lontane, che affondano nei decenni passati, GIA’ a partire dall’entrata della Grecia nell’allora Comunità Europea, nata per motivi politici, ed è paradossale che la sua crisi sia nata esclusivamente per motivi economici[2]. Dopo aver alterato i propri conti per entrare nella Comunità Europea nel 1981 infatti[3], ed ancora per poter organizzare le Olimpiadi del 2004, la Grecia ha continuato ad avere un rapporto non semplice con l’Unione, acuito dalla crisi degli ultimi anni.

Nel Gennaio 2015 Alexis Tsipras guida Syriza, partito di sinistra anticapitalista, ad un successo strepitoso, sfiorando la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento (149 su 300), e formando un Governo con ANEL -formazione di destra nazionalista- mette già in luce le sue doti di stratega. Lo scenario che Alexis si trova di fronte è drammatico; il paese è strangolato dal debito pubblico, e viene messo di fronte alle sue responsabilità dalle politiche di austerità dell’Unione Europea. In questo clima incandescente, Tsipras decide di indire un Referendum nel quale si chiede se accettare o meno l’accordo con la Troijka, che prevede un piano di risanamento del debito previa attuazione di politiche di austerità. Il Referendum viene respinto, nel 2015, con oltre il 60% dei voti. Ma l’Unione non accetta sconti, e minaccia di far uscire la Grecia dall’eurozona qualora il patto non venga accettato. Tsipras si dimette, si va ad elezioni anticipate, che ancora una volta premiano Syriza che formerà nuovamente un governo con ANEL. Non c’è via d’uscita. Tsipras decide finalmente di accettare le politiche di austerità promosse da Bruxelles, sconfessando una chiara volontà popolare. E’ agli occhi di tanti una retromarcia senza precedenti, un tradimento del demos difficile da digerire. Ed a questo punto mi fermo. La parabola di Tsipras aprirebbe le porte ad un dibattito tanto lungo quanto difficile da discernerne una prospettiva univoca; c’è chi lo addita come un traditore della patria, come colui che avrebbe potuto aprire le porta ad un tipo diverso di sinistra, di politica, di Europa, rifiutando il diktat dell’Unione e guidando un’alternativa, e non l’ha fatto. Altrettanti, lo accolgono come una figura saggia, ragionata: colui che, avendo avuto esperienza della complessità di uno stato e delle sue oggettive responsabilità verso se stesso e verso l’esterno, ha rivisto le sue posizioni nel modo più utile al suo paese, lo ha rimesso in carreggiata, gli ha dato una sostenibilità, ed ha scongiurato il rischio default che, fra l’altro, la Grecia ha superato definitivamente solo da qualche mese[4].

Alexis Tsipras, leader of the extreme-left party Syriza

Di chi sono state le responsabilità di tale crisi? Era possibile gestirla meglio? L’austerità dell’Unione nel voler sottomettere Atene alle proprie scelte economiche, o la negligenza con la quale i politici locali (che hanno preceduto Tsipras di qualche decennio) hanno affrontato spese e manomesso conti pubblici facendo pesare tutto sulle spalle dei loro cittadini? Nonostante l’atteggiamento di Bruxelles verso Atene (seppur sui modi e sugli atteggiamenti ci sarebbe lungamente da disquisire) sia stato sì un piano severo ma necessario per salvare l’Ellade dalla bancarotta, ha altresì fornito uno strumento formidabile di propaganda per tutti quei partiti euroscettici che osteggiano l’Unione e le sue politiche. L’immagine di un’Unione serva delle banche che mette a repentaglio le vite dei popoli europei pur di servire gli interessi dei gruppi di potere è entrata ormai nell’immaginario collettivo di tutte le forze ostili all’Unione, e togliersi quest’etichetta di dosso non sarà per niente semplice.

Si può scegliere l’angolatura che si vuole per osservare la figura di Tsipras, dei suoi valori, ampiamente sconfessati, e del suo modo di agire, pragmatico fino all’inverosimile. L’unica cosa che non si può modificare sono i numeri: se tanti osservatori prevedevano un crollo di Syriza per queste elezioni[5], così non è stato. Nonostante mosse altamente impopolari, Tsipras è rimasto in piedi, a testimonianza delle sue qualità politiche eccezionali. Syriza ha perso sì al centro, con gli elettori moderati che hanno deciso di orientarsi verso una formazione politica che dia loro fiducia e stabilità sui mercati, ma non a sinistra, dove il PASOK rimane distante l’enormità di 20 punti percentuali. Tutto ciò ci spinge ad affermare che Syriza ha contenuto la sconfitta benissimo per 3 motivi: 1) ha recuperato un milione di voti rispetto alle Europee, ed in generale il suo risultato è andato ben oltre le previsioni di tutti i centri di ricerca 2) Mantiene il monopolio dell’elettorato di sinistra 3) Si propone, qualora ce ne fosse bisogno, come possibile partner di governo, visto che le numerose anime che compongono Nea Dimokratia lasciano più di un dubbio sulla stabilità di un esecutivo monocolore.  

Risultati definitivi, Nea Dimokratia al 39,85%, Syriza al 31,53%. Distribuzione dei seggi nel nuovo parlamento di Atene. Source: www.ednhub.news.it

Guardando al globale, tali risultati ci spingono a formulare altre due considerazioni. La prima riguarda il futuro della socialdemocrazia.  Quella che Syriza, partito di sinistra estrema, ha dato al PASOK, partito legato alla socialdemocrazia del nuovo millennio, è una lezione storica; lo ridotto a percentuali intorno al 10% ed ha così preso il monopolio dell’elettorato di questa area. Da questo sorpasso “a sinistra” cosa ne deriva? La strategia elettorale di “estremizzazione” del discorso a sinistra è replicabile altrove con gli stessi risultati elettorali, oppure quello di Syriza è un unicum facilitato da più circostanze? Quanto ha inciso il carisma di Tsipras e la situazione di crisi economica nel successo della sua creatura? Se guardiamo altrove l’unico caso dove la sinistra ha surclassato la socialdemocrazia e dove continua ad avere il polso di quell’elettorato è la Francia con Mélenchon (anch’egli un leader dalle qualità straordinarie). Altrove il Partito Socialista, dopo una fase di flessione, mantiene il monopolio del mondo di sinistra, come in Spagna e Portogallo. La forza di Syriza deriva dunque dalle capacità del leader, dai suoi contenuti o piuttosto dal contesto esterno? Una bella domanda, alla quale solo altre evidenze empiriche sapranno fornire risposte più accurate.

Dall’altro lato, si confermano perlomeno allarmistiche le barricate ideologiche contro partiti estremistici, dettate più da una paura smisurata verso le voci dissidenti, che non dalla reale consistenza di fenomeni che sono destinati alla marginalità politica. Il caso di Alba Dorata, su cui i media di mezza Europa si sono soffermati, ne è l’esempio classico. Come le elezioni greche hanno dimostrato, l’elettorato di destra preferisce confluire voti su un’alternativa di governo più credibile su tutti i fronti, alias Nea Dimokratia, piuttosto che su coloro che professano un discorso a dir poco estremistico e con dei contenti assolutamente inattuabili nella società odierna. Non è un caso che Alba Dorata abbia dimezzato i propri voti rispetto al 2015 -non riuscendo nemmeno a superare la soglia del 3% utile per ottenere una rappresentanza parlamentare- a favore di un partito ideologicamente moderato e concretamente più adatto a dialogare con l’Europa ed i mercati.

Dai due punti appena ripresi, ricaviamo una forte strutturazione del sistema politico greco in senso bipolare; un’alternativa di Sinistra ed una di Destra ben strutturate, che si rubano voti al centro, pronte a capitalizzare sugli errori altrui, affiancate da altri piccoli partiti che rimangono a guardare, ma che possono sempre giocare un potenziale di governo o di ricatto[6], come dimostra l’alleanza di Syriza con ANEL nella passata legislatura, e come potrebbe accadere ancora.

Quale sarà il futuro della Grecia, culla della civiltà europea, è un rebus di difficile soluzione. Difficile poiché la fiducia che i greci ripongono nell’Unione è ridotta ai minimi termini, e vista anche l’affluenza disastrosa alle ultime politiche dove ha votato una persona su due, dimostra proprio questa insoddisfazione dell’elettorato.[7] Di certo, lo scontro con l’Unione ha lasciato ferite sanguinose a tutti i livelli, che solo una generazione di politici responsabili, ci auguriamo, potrà rimarginare.


[1] Si veda sull’argomento, Il Sole 24 Ore, Le Olimpiadi in Grecia del 2004 furono l’inizio del default, Vittorio Da Rold, 14 Febbraio 2012,  e Il Fatto Quotidiano, Quando Goldaman Sachs truccava i conti della Grecia per farla entrare nell’Euro, Leonardo Martinelli, 26 Marzo 2012.

[2] Sull’entrata della Grecia nella Comunità europea  si veda Limes, Tsipras, l’Europeista immaginario, Tra Euro e Neuro, n°7 – 2015.

[3] Irregolarità sulle quali, osserverebbe qualcuno, si è chiuso un occhio per agevolare l’entrata delle Grecia nell’allora Comunità Economica Europea, e quindi nella NATO, al fine di allontanarla definitivamente dall’orbita sovietica.

[4] Il corriere della sera, La Grecia esce dal programma di aiuti: addio alla Troika dopo 8 anni di crisi, Giuliana Ferraino, 19 Agosto 2018.

[5] The Guardian, Syriza betrayed its principles – and the Greek people. Its days are numbered, July the 5th 2019.

[6] Secondo la fortunata definizione di Sartori, con la quale definisce piccoli partiti in grado comunque di incidere sugli equilibri di governo.

[7] Il Post, La crisi in Grecia spiegata in 12 grafici, 4 luglio 2015.

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