La disparità occupazionale non è un tema tanto dibattuto quanto la disparità salariale, ma si tratta nondimeno di un aspetto cruciale per la ripartenza economica dei paesi dell’Unione Europea (UE) e per il proseguimento sulla strada dei diritti di genere intrapresa più di un secolo fa dalle suffragette[1].
Il lavoro retribuito è il mezzo di emancipazione per eccellenza e gioca un ruolo chiave nel definire una persona, rendendola libera di autodeterminarsi. Assolvere compiti domestici e di cura del prossimo dovrebbe dipendere da una scelta priva di restrizioni di sorta, siano esse culturali, sociali o economiche. Inoltre, il ruolo e l’importanza della cura dei più deboli, bambini, anziani e disabili, dovrebbero essere riconosciuti a livello sistemico e non solamente informale.
Limitare la presenza delle donne nel mercato del lavoro significa limitare talenti, competenze e capacità a disposizione della parte produttiva di un paese. Uno studio dell’Eurofound del 2017 stima che la perdita economica per il divario occupazionale in UE ammonti a più di €370 miliardi [2]. L’analisi mostra anche come ci sia grande eterogeneità tra i diversi paesi europei: per Malta la percentuale di prodotto interno lordo (PIL) persa ogni anno ammonta all’8,2%, per l’Italia al 5,7% e per la Grecia al 5%, mentre dall’altro estremo dello spettro troviamo Svezia e Lituania con perdite inferiori all’1,5% del PIL.

Utilizzando gli ultimi dati Eurostat disponibili (2019), quindi pre-coronavirus[2], il focus di quest’articolo viene riposto sui sei paesi UE più popolosi: Germania, Francia, Italia, Spagna, Polonia e Romania. Il seguente grafico evidenzia la problematica all’interno dell’UE e nei sei paesi menzionati. In verde è rappresentato il tasso di occupazione femminile, mentre in blu quello maschile. Nel rettangolo tratteggiato viene messa in risalto la differenza in punti percentuali tra occupazione maschile e femminile.

La disparità occupazionale è particolarmente evidente in Polonia, Romania e, soprattutto, in Italia -dove quasi una donna su due tra i 20 e i 64 anni non ha un impiego retribuito. Nondimeno, lo stacco è ben visibile anche nel mercato del lavoro spagnolo, dove il differenziale è di quasi 12 punti percentuali, superando la media UE di 11,4.
L’importanza delle politiche di contrasto alla disparità occupazionale di genere
La disparità occupazionale di genere è espressione di un retaggio patriarcale di lungo corso. Per cambiare le cose è necessario un cambio di paradigma culturale, accompagnato da riforme di contrasto alla disparità occupazionale di genere. Vediamo dunque alcune politiche introdotte da Francia e Germania per incentivare l’occupazione femminile.
FR – Chèque emploi service universel: un sistema di voucher introdotto nel 2006 tramite il quale si possono pagare lavoratrici e lavoratori domestici, così come chi si occupa di assistenza all’infanzia, siano queste figure professionali di un’agenzia o esterne. Il voucher semplifica la procedura di assunzione, pagamento e messa in regola di queste figure, unendo anche un incentivo fiscale (le spese sono detraibili) e opportunità di co-finanziamento[3] [3].
DE – Perspektive Wiedereinstieg: un programma di sostegno alle donne che sono state fuori dal mercato del lavoro per più di tre anni per ragioni familiari. Offre assistenza professionale -sia telematica che di persona- oltre a corsi di formazione e incentivi fiscali per i datori di lavoro [4].
FR – Complémente de libre choix du mode de garde: un corrispettivo economico mirato a coprire parte delle spese di custodia dei bambini fino a sei anni [5].
DE – Elterngeld: un assegno di genitorialità al quale hanno diritto i genitori che riducono il loro numero di ore lavorate a meno di 30 settimanali nel primo anno dell’infante. L’indennità equivale alla paga corrispondente dell’avente diritto se questo continuasse a lavorare a tempo pieno. Con metodologie diverse, ne possono beneficiare anche studenti e disoccupati [6].
DE – Pflegezeitgesetz und Familienpflegezeitgesetz: una norma di legge che autorizza gli impiegati a prendere un congedo non pagato per la cura di familiari prossimi. Il congedo può essere corto –di 10 giorni– o lungo -con una riduzione delle ore lavorative fino ad un massimo di 15 a settimana fino a due anni- [7].
FR – La Charte de la Paternité en Enterprise: una carta d’intenti da sottoscrivere -su base volontaria- dalle imprese che si vogliono impegnare nell’equilibrio lavoro-famiglia dei propri dipendenti. Lo scopo è quello di garantire più flessibilità nell’orario lavorativo e di creare un ambiente con un occhio di riguardo per i dipendenti con bambini, rispettando il principio di non-discriminazione nell’evoluzione di carriera di chi ha figli [8].
Credo che sia importante evidenziare due elementi ricorrenti nelle politiche sopra elencate. Il primo è l’aspetto di flessibilità: gli oneri e i benefici di aziende e lavoratrici sono modulabili caso per caso e cambiano al variare delle situazioni. Infatti, imposizioni troppo rigide possono influenzare negativamente i datori di lavoro, che potrebbero essere portati a preferire l’assunzione di un uomo piuttosto che di una donna. Si pensi ad esempio al caso del congedo di maternità obbligatorio: in Francia e in Germania questo è rispettivamente di 16 e 14 settimane, contro le 21 dell’Italia [9] [10]. Il secondo elemento è quello di inclusione: quasi tutte le politiche sopra elencate non sono rivolte esclusivamente alle donne, ma anzi si cerca di non fare discriminazioni di genere. Tornando all’esempio del congedo di maternità, una sua riduzione nei paesi dove questo è molto lungo dovrebbe corrispondere ad un allungamento di quello di paternità. In questo Italia e Romania si stanno adeguando alle richieste della Commissione Europea, raggiungendo lo standard minimo europeo di dieci giorni.
Infine, un altro aspetto importante di alcune politiche sopra elencate è quello della diminuzione del costo da affrontare per la cura degli infanti: così facendo si riduce l’incentivo del partner con il salario più basso (che spesso corrisponde alla donna) a stare a casa con i figli per non incorrere nelle spese di asili nido, centri estivi e tutti i servizi dell’infanzia. Queste politiche, inoltre, hanno un impatto positivo sulla natalità, problema endemico di molti paesi europei (Francia guarda caso esclusa[4]).
Il livello di istruzione nel tasso di occupazione femminile
Un indicatore chiave del tasso di occupazione è rappresentato dal livello di istruzione. Difatti, in tutti e sei i paesi sotto scrutinio, il livello di istruzione è uno dei fattori determinanti nella previsione di impiego.
Qui di seguito vengono riportate le percentuali occupazionali femminili tra i 20 e i 34 anni per livello di istruzione, dove Low indica un livello basso, corrispondente al ciclo di studi obbligatorio o inferiore, Medium un livello medio, con il raggiungimento di un diploma di scuola superiore e High un livello alto, universitario o post-universitario.

Dal grafico risulta evidente come un alto livello di educazione corrisponda ad un tasso d’impiego più elevato. Questo è particolarmente evidente in Polonia, dove il tasso di occupazione tra le donne con un basso livello di educazione e quelle con un livello elevato cambia di 60 punti percentuali. In Germania d’altro canto, il tasso di occupazione tra chi ha un livello di istruzione di scuola secondaria è molto vicino a quello di chi ha un’educazione universitaria. Questa peculiarità è probabilmente dovuta alla forte presenza di istituti tecnici superiori che preparano al mondo del lavoro già durante il secondo ciclo di studi.
Incentivare l’educazione si rivela quindi uno strumento utile anche per colmare la disparità occupazionale di genere nel mercato del lavoro. Paesi come la Romania e l’Italia –con una differenza occupazionale di oltre 19 punti percentuali- potrebbero quindi beneficiare di effetti positivi nel mercato del lavoro incentivando maggiormente l’istruzione universitaria femminile.
Il seguente grafico mostra la percentuale di laureati all’interno della popolazione dei sei paesi in esame: è interessante notare come, ad esclusione della Germania, le ragazze siano tendenzialmente più portate a terminare anche l’ultimo ciclo di studi.[5]

La disparità occupazionale e il ruolo della donna nei piani dell’UE
Il rilancio dell’Unione Europea dovrebbe passare anche attraverso le donne e un rinnovato riconoscimento del loro ruolo nella società. Farlo non sarebbe solamente giusto, ma anche necessario. Per questo le istituzioni europee hanno deciso di vincolare tutti i fondi del bilancio pluriennale e del Next Generation EU destinati alla mitigazione e l’adattamento dei cambiamenti climatici (una fetta del 30% del totale, corrispondente a circa €547 miliardi) a progetti attenti all’equità di genere. Impostando quindi la direzione per il futuro: una transizione verso la sostenibilità ambientale libera da discriminazioni di genere [12].
Nonostante la chiara presa di posizione dell’UE, c’è chi si aspettava di più: Alexandra Geese, Europarlamentare dei Verdi/EFA, ha lanciato una petizione chiedendo che anche i fondi destinati alla digitalizzazione mettano al centro la donna e i suoi diritti, arrivando quindi a metà di tutta la spesa del pacchetto Next Generation EU. La proposta può sembrare sproporzionata, ma vista l’entità’ della disparità occupazionale di genere nel mercato del lavoro, forse non lo è poi così tanto.
[1] Movimenti di emancipazione femminile e di richiesta di voto sono apparsi a macchia d’olio un po’ in tutto il mondo verso la fine del 1800 e l’inizio del ‘900, anche se già’ subito dopo la rivoluzione Francese (nel 1791) Olympe de Gouges scrisse la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, in cui dichiarava l’uguaglianza politica e sociale tra uomo e donna. [1]
[2] Recenti studi indicano come il divario occupazionale in alcuni paesi sviluppati sia destinato ad allargarsi dopo la crisi. Questo perché la donna è più spesso il partner con il reddito minore, che quindi decide di rinunciare al lavoro per accudire i bambini durante la chiusura delle scuole. Inoltre in alcuni paesi l’occupazione femminile e’ più’ alta nei settori maggiormente colpiti, come quelli della vendita al dettaglio e della ristorazione [4], [5].
[3] Anche in Italia esiste uno strumento simile, che purtroppo però non sembra dare i frutti sperati [3b].
[4] Nel 2018 la Francia aveva un tasso di fertilità di 1,88 figli per donna, contro l’1,29 dell’Italia [11]
[5] Il fenomeno è presente anche in Germania nella popolazione più giovane tra I 20 e I 34 anni.
Fonti
[1] Dai primitivi al post-moderno: tre percorsi di saggi storico-antropologici, di Vittorio Lanternari, Liguori Editore, 351
[2] Eurofound: The gender employment gap: Challenges and solutions, Luxembourg 2016, Publications Office of the European Union.
[3] Le Cesu, qu’est-ce que c’est
[3b] Prestazioni di lavoro occasionale: libretto famiglia
[4] Perspektive Wiedereinstieg: Startseite
[6]Elterngeld und ElterngeldPlus
[9] COVID-19 and the gender gap in advanced economies | VOX, CEPR Policy Portal
[10] Il 98% di chi ha perso il lavoro è donna, il Covid è anche una questione di genere
[10b] (Occupati e disoccupati (dati provvisori)
[11] File:Total fertility rate, 1960–2018 (live births per woman).png – Statistics Explained
[12] The 2021-2027 EU budget – What’s new? | European Commission