Luci e ombre del Gigante asiatico: i Diritti Umani in Cina

La situazione dei diritti umani nella Repubblica Popolare Cinese è tutt’oggi estremamente controversa. A dispetto dell’apertura economica e delle riforme degli ultimi anni, molte associazioni internazionali sui diritti umani continuano a bollare il sistema legale cinese come “arbitrario, corrotto ed incapace di fornire la giusta salvaguardia[1] a causa delle ancora numerose violazioni di norme internazionali.

La recente emergenza Coronavirus ha evidenziato ancora più chiaramente le falle esistenti in termini di tutela dei diritti fondamentali, esponendo la Cina allo sguardo indagatore della comunità internazionale. Come affermato da Nicholas Bequelin, Direttore di Amnesty International per l’Asia, i provvedimenti varati da Pechino contro il virus hanno infatti comportato una limitazione di importanti diritti fondamentali: il diritto alla salute, anzitutto, in termini di libertà di accesso alle cure mediche, alle informazioni e libertà dalle cure mediche prive di consenso. Ancora, la libertà dagli arresti arbitrari, libertà di movimento e di espressione.[2] A ben vedere, infatti, nelle settimane di crisi il personale medico di Wuhan ha lamentato la scarsità delle risorse per gestire gli alti numeri del contagio. Gli organi di informazione locali hanno riferito di pazienti respinti da molti ospedali per mancanza di posti letto, di strutture mediche sprovviste di accesso ai test diagnostici fondamentali, di persone impossibilitate ad arrivare velocemente agli ospedali a causa del blocco dei trasporti pubblici. Addirittura, della difficoltà di portare fuori casa i corpi delle persone decedute a causa della malattia.[3] Problematiche che, è importante sottolineare, hanno evidenziato le fragilità di tutti i Paesi toccati dall’emergenza sanitaria, Italia inclusa. Ciò che pesa ulteriormente in Cina, però, è una realtà politica che ha spesso esposto la dirigenza ad insinuazioni di scarsa trasparenza e tentativi di mistificazione. La chiusura imposta a molte metropoli, a partire dalla provincia di Hubei, è stata affiancata da misure draconiane come sistemi di controllo stringenti, schedatura obbligata dei cittadini e censura di notizie ritenute destabilizzanti. Le persone che hanno cercato di condividere informazioni circa il Coronavirus sono state prese di mira dalle autorità: caso emblematico è quello del medico Li Wenliang, il primo ad aver lanciato l’allarme, ammonito per aver “diffuso false informazioni sul web”.[4] Come afferma Bequelin “Censurare legittime informazioni sui quotidiani o sui social media non è funzionale ad alcun obiettivo di salute pubblica (…) limitare la libertà d’informazione e sopprimere il dibattito in nome della stabilità produce gravi rischi e può essere assai controproducente”.[5]

Chongqing, nel sud-ovest della Cina, foto di Antonella Iavazzo

L’assenza di un sistema democratico e di una effettiva tutela dei diritti umani in Cina sembrerebbe una conseguenza della cosiddetta “specificità cinese”, vale a dire aspetti ben radicati della tradizionale cultura politica e civiltà nazionale. Prima fra tutti, la visione confuciana per cui solo un sistema altamente centralizzato e gerarchizzato possa garantire ordine ed armonia politico-sociale.[6] Questo è quanto ha ribadito anche lo studioso Antonio Cassese, secondo il quale per i Paesi Socialisti i diritti umani non sono connaturati agli individui né preesistono allo Stato, sono bensì accordati da quest’ultimo, che può dunque limitarli e circoscriverli se necessario.[7] Tale substrato culturale, sommato all’eredità maoista che ancora oggi grava sul Paese, illustra bene quanto la tutela giuridica dei diritti umani in Cina sia un fenomeno relativamente recente. Fino agli anni Ottanta, infatti, l’attività giurisdizionale era svolta in modo arbitrario dalle Guardie Rosse e dai comitati rivoluzionari, seguendo strenuamente l’imperativo di “la politica al primo posto” e “appoggiare la guida del Partito”.[8] La stessa espressione “diritti umani” (renquan) 人权 aveva una connotazione dispregiativa, espressione dell’ideologia capitalista impiegata in Occidente per mascherare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.[9] Solo la graduale liberalizzazione e apertura inaugurata a partire dal 1978 ha incoraggiato la dirigenza a rispondere più opportunamente al bisogno di tutela dei diritti umani. Sul fronte normativo, la Cina ha compiuto evidenti sforzi per adattare le proprie leggi e garantire un rispetto e tutela crescenti di tali diritti, essendo riconosciuti dalla comunità internazionale di cui fa parte a pieno titolo.[10] La Costituzione del 1982, ad esempio, garantisce ai cittadini un’ampia varietà di diritti politici, personali, economici, sociali e culturali. Nel 2004, l’art. 33 della Costituzione ha visto l’aggiunta del comma per cui “lo Stato rispetta e protegge i diritti umani” e, nel 2010, la pubblicazione del primo National Human Rights Action Plan ha sancito l’accettazione del principio di universalità dei diritti umani. Parallelamente, la Cina ha aderito a numerose convenzioni internazionali riguardanti materie delicate come la tortura, i diritti dei minori e dei lavoratori.[11]                                                                                                                                                                                 

Chongqing, nel sud-ovest della Cina, foto di Antonella Iavazzo

I progressi compiuti sino ad oggi, non possono però impedirci di notare come la protezione e l’esercizio di tali libertà rimanga ancora estremamente limitato, non solo a causa delle vaghe definizioni date di tali diritti, ma anche per l’inclusione di numerose eccezioni che consentono di derogarvi facilmente. Come chiarito dall’art. 51, in Cina l’esercizio dei diritti e delle libertà dei cittadini è condizionato all’interesse collettivo. I diritti umani, nella pratica, non sono considerati in termini assoluti, bensì in relazione alla crescita e al benessere della collettività, soprattutto in ambiti soggetti a forti tensioni in cui l’interesse pubblico è chiaramente prioritario rispetto a quello dei singoli.[12] In riferimento alla sopracitata Convenzione contro la tortura, ad esempio, nonostante la dirigenza abbia rafforzato la proibizione della tortura prevedendo anche sanzioni per eventuali abusi, tutt’oggi manca ancora una definizione assoluta del concetto di tortura. Ciò consente la possibilità di limitare facilmente tali diritti a favore del mantenimento di ordine e stabilità interni.[13] Il rapporto annuale di Amnesty 2017/2018 ben illustra il continuo inasprimento del potere di dissenso e censura delle autorità cinesi attraverso l’elaborazione e l’applicazione di nuove leggi sulla sicurezza nazionale. L’istituzione di associazioni e organizzazioni di società civile si scontra ancora con i ferrei limiti di controllo posti alle attività associative. Il 1° gennaio 2017 la nuova legge sulla gestione delle ONG straniere ha autorizzato il congelamento dei conti bancari, la vendita dei locali ed anche la detenzione del personale delle ONG non registrate in Cina, senza alcun tipo di tutela del diritto di riservatezza, della libertà di espressione e contro la detenzione arbitraria. Numerosi attivisti, inoltre, sono diventati bersaglio di una repressione senza precedenti avviata dal governo, arrestati o condannati per “sovversione del potere dello stato” e soggetti a tortura e maltrattamenti durante la detenzione. [14]   

Chongqing, nel sud-ovest della Cina, foto di Antonella Iavazzo

Il Partito esercita un ampio controllo anche su ogni aspetto della pratica religiosa: l’organizzazione ed il culto delle religioni non riconosciute sono violentemente repressi. Il 2018 ha incoraggiato una revisione di norme e regolamenti su questioni religiose, con l’obiettivo di limitare “infiltrazioni ed estremismo”: minoranze religiose quali la lamaista tibetana e musulmana uigura, pur essendo riconosciute, sono soggette e forti restrizioni a causa del loro potenziale collegamento con le correnti separatiste presenti nelle provincie del Tibet e dello Xinjiang.[15] Per quel che riguarda la libertà d’espressione, è ormai noto il controllo stringente esercitato dal Partito sulle informazioni, migliaia di siti web e social network sono tutt’oggi bloccati, inclusi Facebook, Instagram e Twitter. Dal 2017 è stata condotta un’indagine sui principali fornitori di servizi internet quali Tencent’s Wechat, Sina Weibo e Baidu’s Tieba, identificando sulle loro piattaforme account di utenti che “diffondevano informazioni pericolose per la sicurezza nazionale, pubblica e l’ordine sociale”.[16] Anche in riferimento alla libertà e dignità personale, permane tutt’oggi l’idea per cui le scelte personali debbano cedere il passo all’interesse pubblico. Un esempio è il diritto alla riproduzione, fortemente limitato dalla politica del “figlio unico” che impone alle coppie il dovere di praticare la pianificazione familiare, punisce con sanzioni pecuniarie le nascite fuori piano e viene accompagnata da strumenti di pressione psicologica e sociale. Anche il diritto penale cinese rimane caratterizzato da norme vaghe e strettamente connesse al controllo politico, come i reati d’opinione, quelli a danno dei segreti di stato o quelli genericamente definiti “contro la sicurezza pubblica e l’ordine economico socialista di mercato”.[17] Il governo continua di fatto a nascondere la reale portata dell’uso della pena di morte.

Tale riflessione mostra come, rispetto al passato, gli spazi di autonomia soggettiva a disposizione dei cittadini cinesi siano enormemente cresciuti. In qualità di attore protagonista della comunità internazionale, la Cina si sta dimostrando disposta a dialogare per la ricerca di soluzioni condivise e per familiarizzare sempre di più con la protezione dei diritti umani ed i presupposti etici che li sorreggono. Esistono tuttavia dei limiti a questo processo di adattamento, quali strumenti di gestione del potere che la dirigenza cinese considera irrinunciabili, pur contrastando con i diritti umani considerati fondamentali. Tali tendenze, seppur spiegabili alla luce dell’esigenza prioritaria di mantenere l’ordine e la stabilità nazionale, dimostrano è ancora lunga strada da compiere prima di raggiungere la piena affermazione dei diritti umani e la conseguente abolizione della pena di morte.

Antonella Iavazzo


[1] https://reporterspress.it/cina-diritti-umani-2/

[2] https://www.amnesty.it/coronavirus-e-diritti-umani-sette-cose-da-sapere/

[3] https://www.amnesty.it/coronavirus-e-diritti-umani-sette-cose-da-sapere/

[4] https://www.ilpost.it/2020/02/07/la-doppia-morte-di-li-wenliang/

[5] https://www.amnesty.it/coronavirus-e-diritti-umani-sette-cose-da-sapere/

[6] https://www.tuttocina.it/Mondo_cinese/046/046_corr.htm

[7] Cassese Antonio, I diritti umani oggi, Economica Laterza, Bari, 2009.

[8] http://www.cosmopolisonline.it/articolo.php?numero=III12008&id=16

[9] http://www.cosmopolisonline.it/articolo.php?numero=III12008&id=16

[10] http://www.acatitalia.it/newsite/content/tortura-la-cina-e-la-tutela-dei-diritti-civili

[11] http://www.acatitalia.it/newsite/content/tortura-la-cina-e-la-tutela-dei-diritti-civili

[12] http://www.cosmopolisonline.it/articolo.php?numero=III12008&id=16

[13] http://www.cosmopolisonline.it/articolo.php?numero=III12008&id=16

[14] https://www.amnesty.it/rapporti-annuali/rapporto-annuale-2017-2018/asia-e-pacifico/cina/

[15] https://www.amnesty.it/rapporti-annuali/rapporto-annuale-2017-2018/asia-e-pacifico/cina/

[16] https://www.amnesty.it/rapporti-annuali/rapporto-annuale-2017-2018/asia-e-pacifico/cina/

[17] https://www.amnesty.org/en/documents/asa17/5849/2017/en/

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2019: c’è ancora la schiavitù in Libia – chi offre di più?

“Settecento dollari!” e poi “Cinquecento!”, “Seicento!”, “Seicentocinquanta!”

La voce stanca del cinico banditore d’asta risuona tra le pareti mal costruite. Una alla volta, le figure emaciate che una volta erano esseri umani, sono trascinate di fronte al pubblico. Sono albadayie – mercanzia – ormai. E se guardi in giù, verso la tua paletta, ti rendi conto di essere tentato a comprare.

Benvenuti nella giungla. Benvenuti nell’anfiteatro della morale perduta. Per un momento, qui non c’è altro che un caos organizzato mentre la stanza prende vita.

Ragazzi forti, braccia utili per lavorare i campi sono l’oggetto della vendita. Il martelletto colpisce il tavolo ai settecento dollari. In un minuto la transazione è completata: congratulazioni, hai appena comprato il tuo quinto schiavo.

Questa è una scena accaduta realmente due anni fa, quando una reporter della CNN, Nima Elbagir, dimostrò in un video diffuso poi in tutto il mondo come si possa dare un prezzo alla vita umana. In un piccolo villaggio vicino a Tripoli, ha chiesto di poter parlare con l’albadyie – un ragazzo che era appena stato comprato – ricevendo per tutta risposta un perentorio “no”.

Nonostante in Libia la schiavitù sia stata abolita in tutte le sue forme nell’ormai lontano 1853, questi avvenimenti accadono tuttora senza alcuna opposizione, ancora più alla luce del sole da quando è caduto Muammar Gheddafi nel 2011.

L’articolo 4 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, firmato globalmente nel 1948, pone ufficialmente la parola fine alla schiavitù in tutto il mondo, dichiarando che “nessun uomo sarà sottomesso in schiavitù o in stato di servo; la schiavitù e la tratta di schiavi saranno proibite in tutte le loro forme”. Ciononostante, settant’anni dopo, non tutta l’umanità lo ha accettato e in alcuni paesi le condizioni rimangono immutate, tali e quali a quelle dell’epoca della tratta degli schiavi con l’America.

In maniera allarmante, negli ultimi anni, la spinta per la giustizia sociale e per la difesa dei diritti umani di base sta venendo meno. Nel caso del Sudan, il governo sta tentando di insabbiare il dibattito sul tema argomentando che la schiavitù non sarebbe altro che uno sfortunato e imprevedibile effetto collaterale della guerra tra tribù, rinviando così il suo dovere morale. Nello stesso verso va il Codice Penale del Sudan del 1991 che non classifica nemmeno la tratta di schiavi come pratica criminale. Di conseguenza c’è oggigiorno un numero sconosciuto di albadyie, persone che vivono ancora in cattività.

Ciò ci dice un fatto indiscutibile: che il commercio di schiavi ancora esiste nella maggior parte delle regioni africane. L’indice globale della schiavitù stima che nel 2018 ci siano 40.3 milioni di schiavi moderni (2). Tanto per dare un’idea, visto che il numero in sé e la statistica non possono farlo e quindi non rendono facilmente giustizia al problema in questione, l’intera popolazione di un paese come l’Iraq è di 39,3 milioni di persone…

Dal 1981 la Mauritania ha proibito la schiavitù legalmente, ma senza nessuna applicazione reale, cosicché oggi il numero stimato di persone che vivono in moderna schiavitù ammonta a 90.000 (4).

Allo stesso modo, nella penisola del Sinai, ci sono più di 50 gruppi di trafficanti di esseri umani che operano incontrollati. È per questo che non ci sorprende poi tanto il fatto che questa regione sia considerata una roccaforte di Al-Qaeda e beduini.

Qual è dunque il prezzo della libertà? Sapresti rispondere se ti chiedessero qual è il prezzo della tua libertà?

Per te e per me, che non siamo uomini forti e adatti al lavoro, otterremmo molto meno di settecento dollari.

Settecentotrenta giorni dopo quel video, il numero di persone che vive in condizioni di schiavitù moderna rimane ancora molto alto, nel caso della Libia si stima ce ne siano attorno alle 48.000 (5).

Nel XXI secolo, l’ingenuità e l’ignoranza dei fatti non sono più una difesa giustificabile, non si può più far finta di non sapere, la responsabilità perciò ricade tanto negli attori quanto negli spettatori.

La schiavitù non è un problema di libri di testo con foto e disegni in bianco e nero, non riguarda il passato, sta avvenendo ora.

Sceglierai il comodo silenzio?

Evelina Tancheva

1 https://www.youtube.com/watch?v=cVdFr3nwAco

2 https://www.globalslaveryindex.org/news/new-data-reveals-widespreadfailure-by-governments-in-tackling-modern-slavery/

3 https://www.worldometers.info/world-population/population-by-country/

4 https://www.globalslaveryindex.org/2018/data/maps/#prevalence

5 https://www.globalslaveryindex.org/2018/data/maps/#prevalence

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