Disparità occupazionale di genere in Europa

La disparità occupazionale non è un tema tanto dibattuto quanto la disparità salariale, ma si tratta nondimeno di un aspetto cruciale per la ripartenza economica dei paesi dell’Unione Europea (UE) e per il proseguimento sulla strada dei diritti di genere intrapresa più di un secolo fa dalle suffragette[1].

Il lavoro retribuito è il mezzo di emancipazione per eccellenza e gioca un ruolo chiave nel definire una persona, rendendola libera di autodeterminarsi. Assolvere compiti domestici e di cura del prossimo dovrebbe dipendere da una scelta priva di restrizioni di sorta, siano esse culturali, sociali o economiche. Inoltre, il ruolo e l’importanza della cura dei più deboli, bambini, anziani e disabili, dovrebbero essere riconosciuti a livello sistemico e non solamente informale.

Limitare la presenza delle donne nel mercato del lavoro significa limitare talenti, competenze e capacità a disposizione della parte produttiva di un paese. Uno studio dell’Eurofound del 2017 stima che la perdita economica per il divario occupazionale in UE ammonti a più di €370 miliardi [2]. L’analisi mostra anche come ci sia grande eterogeneità tra i diversi paesi europei: per Malta la percentuale di prodotto interno lordo (PIL) persa ogni anno ammonta all’8,2%, per l’Italia al 5,7% e per la Grecia al 5%, mentre dall’altro estremo dello spettro troviamo Svezia e Lituania con perdite inferiori all’1,5% del PIL.

disparitá occupazionale di genere in UE
Eurofound (2016), The gender employment gap: Challenges and solutions, Publications Office of the European Union, Luxembourg.

Utilizzando gli ultimi dati Eurostat disponibili (2019), quindi pre-coronavirus[2], il focus di quest’articolo viene riposto sui sei paesi UE più popolosi: Germania, Francia, Italia, Spagna, Polonia e Romania. Il seguente grafico evidenzia la problematica all’interno dell’UE e nei sei paesi menzionati. In verde è rappresentato il tasso di occupazione femminile, mentre in blu quello maschile. Nel rettangolo tratteggiato viene messa in risalto la differenza in punti percentuali tra occupazione maschile e femminile.

Dati sull'occupazione per genere - disparità occupazionale
Dati sull'occupazione per genere nella d'etá fascia 20-64 nel 2019 in valori e punti percentuali (pp) Fonte: Eurostat e calcoli dell'autore

La disparità occupazionale è particolarmente evidente in Polonia, Romania e, soprattutto, in Italia -dove quasi una donna su due tra i 20 e i 64 anni non ha un impiego retribuito. Nondimeno, lo stacco è ben visibile anche nel mercato del lavoro spagnolo, dove il differenziale è di quasi 12 punti percentuali, superando la media UE di 11,4.

L’importanza delle politiche di contrasto alla disparità occupazionale di genere

La disparità occupazionale di genere è espressione di un retaggio patriarcale di lungo corso. Per cambiare le cose è necessario un cambio di paradigma culturale, accompagnato da riforme di contrasto alla disparità occupazionale di genere. Vediamo dunque alcune politiche introdotte da Francia e Germania per incentivare l’occupazione femminile.

FR – Chèque emploi service universel: un sistema di voucher introdotto nel 2006 tramite il quale si possono pagare lavoratrici e lavoratori domestici, così come chi si occupa di assistenza all’infanzia, siano queste figure professionali di un’agenzia o esterne. Il voucher semplifica la procedura di assunzione, pagamento e messa in regola di queste figure, unendo anche un incentivo fiscale (le spese sono detraibili) e opportunità di co-finanziamento[3] [3].

DEPerspektive Wiedereinstieg: un programma di sostegno alle donne che sono state fuori dal mercato del lavoro per più di tre anni per ragioni familiari. Offre assistenza professionale -sia telematica che di persona- oltre a corsi di formazione e incentivi fiscali per i datori di lavoro [4].

FR Complémente de libre choix du mode de garde: un corrispettivo economico mirato a coprire parte delle spese di custodia dei bambini fino a sei anni [5].

DE – Elterngeld: un assegno di genitorialità al quale hanno diritto i genitori che riducono il loro numero di ore lavorate a meno di 30 settimanali nel primo anno dell’infante. L’indennità equivale alla paga corrispondente dell’avente diritto se questo continuasse a lavorare a tempo pieno. Con metodologie diverse, ne possono beneficiare anche studenti e disoccupati [6].

DE – Pflegezeitgesetz und Familienpflegezeitgesetz: una norma di legge che autorizza gli impiegati a prendere un congedo non pagato per la cura di familiari prossimi. Il congedo può essere corto –di 10 giorni– o lungo -con una riduzione delle ore lavorative fino ad un massimo di 15 a settimana fino a due anni- [7].

FR – La Charte de la Paternité en Enterprise: una carta d’intenti da sottoscrivere -su base volontaria- dalle imprese che si vogliono impegnare nell’equilibrio lavoro-famiglia dei propri dipendenti. Lo scopo è quello di garantire più flessibilità nell’orario lavorativo e di creare un ambiente con un occhio di riguardo per i dipendenti con bambini, rispettando il principio di non-discriminazione nell’evoluzione di carriera di chi ha figli [8].

Credo che sia importante evidenziare due elementi ricorrenti nelle politiche sopra elencate. Il primo è l’aspetto di flessibilità: gli oneri e i benefici di aziende e lavoratrici sono modulabili caso per caso e cambiano al variare delle situazioni. Infatti, imposizioni troppo rigide possono influenzare negativamente i datori di lavoro, che potrebbero essere portati a preferire l’assunzione di un uomo piuttosto che di una donna. Si pensi ad esempio al caso del congedo di maternità obbligatorio: in Francia e in Germania questo è rispettivamente di 16 e 14 settimane, contro le 21 dell’Italia [9] [10]. Il secondo elemento è quello di inclusione: quasi tutte le politiche sopra elencate non sono rivolte esclusivamente alle donne, ma anzi si cerca di non fare discriminazioni di genere. Tornando all’esempio del congedo di maternità, una sua riduzione nei paesi dove questo è molto lungo dovrebbe corrispondere ad un allungamento di quello di paternità. In questo Italia e Romania si stanno adeguando alle richieste della Commissione Europea, raggiungendo lo standard minimo europeo di dieci giorni.

Infine, un altro aspetto importante di alcune politiche sopra elencate è quello della diminuzione del costo da affrontare per la cura degli infanti: così facendo si riduce l’incentivo del partner con il salario più basso (che spesso corrisponde alla donna) a stare a casa con i figli per non incorrere nelle spese di asili nido, centri estivi e tutti i servizi dell’infanzia. Queste politiche, inoltre, hanno un impatto positivo sulla natalità, problema endemico di molti paesi europei (Francia guarda caso esclusa[4]).

Il livello di istruzione nel tasso di occupazione femminile

Un indicatore chiave del tasso di occupazione è rappresentato dal livello di istruzione. Difatti, in tutti e sei i paesi sotto scrutinio, il livello di istruzione è uno dei fattori determinanti nella previsione di impiego.

Qui di seguito vengono riportate le percentuali occupazionali femminili tra i 20 e i 34 anni per livello di istruzione, dove Low indica un livello basso, corrispondente al ciclo di studi obbligatorio o inferiore, Medium un livello medio, con il raggiungimento di un diploma di scuola superiore e High un livello alto, universitario o post-universitario.

Occupazione femminile per livello d'educazione
Tasso di occupazione femminile per livello di istruzione, coorte di età 20-34, anno 2019, valore % Fonte Eurostat

Dal grafico risulta evidente come un alto livello di educazione corrisponda ad un tasso d’impiego più elevato. Questo è particolarmente evidente in Polonia, dove il tasso di occupazione tra le donne con un basso livello di educazione e quelle con un livello elevato cambia di 60 punti percentuali. In Germania d’altro canto, il tasso di occupazione tra chi ha un livello di istruzione di scuola secondaria è molto vicino a quello di chi ha un’educazione universitaria. Questa peculiarità è probabilmente dovuta alla forte presenza di istituti tecnici superiori che preparano al mondo del lavoro già durante il secondo ciclo di studi.

Incentivare l’educazione si rivela quindi uno strumento utile anche per colmare la disparità occupazionale di genere nel mercato del lavoro. Paesi come la Romania e l’Italia –con una differenza occupazionale di oltre 19 punti percentuali- potrebbero quindi beneficiare di effetti positivi nel mercato del lavoro incentivando maggiormente l’istruzione universitaria femminile.

Il seguente grafico mostra la percentuale di laureati all’interno della popolazione dei sei paesi in esame: è interessante notare come, ad esclusione della Germania, le ragazze siano tendenzialmente più portate a terminare anche l’ultimo ciclo di studi.[5]

% di popolazione con educazione universitaria
% di popolazione con educazione universitaria per genere, etá 15-64, anno 2019, valori in %. Fonte: Eurostat e calcoli dell'autore

La disparità occupazionale e il ruolo della donna nei piani dell’UE

Il rilancio dell’Unione Europea dovrebbe passare anche attraverso le donne e un rinnovato riconoscimento del loro ruolo nella società. Farlo non sarebbe solamente giusto, ma anche necessario. Per questo le istituzioni europee hanno deciso di vincolare tutti i fondi del bilancio pluriennale e del Next Generation EU destinati alla mitigazione e l’adattamento dei cambiamenti climatici (una fetta del 30% del totale, corrispondente a circa €547 miliardi) a progetti attenti all’equità di genere. Impostando quindi la direzione per il futuro: una transizione verso la sostenibilità ambientale libera da discriminazioni di genere [12].

Nonostante la chiara presa di posizione dell’UE, c’è chi si aspettava di più: Alexandra Geese, Europarlamentare dei Verdi/EFA, ha lanciato una petizione chiedendo che anche i fondi destinati alla digitalizzazione mettano al centro la donna e i suoi diritti, arrivando quindi a metà di tutta la spesa del pacchetto Next Generation EU. La proposta può sembrare sproporzionata, ma vista l’entità’ della disparità occupazionale di genere nel mercato del lavoro, forse non lo è poi così tanto.

Giovanni Sgaravatti

[1] Movimenti di emancipazione femminile e di richiesta di voto sono apparsi a macchia d’olio un po’ in tutto il mondo verso la fine del 1800 e l’inizio del ‘900, anche se già’ subito dopo la rivoluzione Francese (nel 1791) Olympe de Gouges scrisse la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, in cui dichiarava l’uguaglianza politica e sociale tra uomo e donna. [1]

[2] Recenti studi indicano come il divario occupazionale in alcuni paesi sviluppati sia destinato ad allargarsi dopo la crisi. Questo perché la donna è più spesso il partner con il reddito minore, che quindi decide di rinunciare al lavoro per accudire i bambini durante la chiusura delle scuole. Inoltre in alcuni paesi l’occupazione femminile e’ più’ alta nei settori maggiormente colpiti, come quelli della vendita al dettaglio e della ristorazione [4], [5].   

[3] Anche in Italia esiste uno strumento simile, che purtroppo però non sembra dare i frutti sperati [3b].

[4] Nel 2018 la Francia aveva un tasso di fertilità di 1,88 figli per donna, contro l’1,29 dell’Italia  [11]

[5] Il fenomeno è presente anche in Germania nella popolazione più giovane tra I 20 e I 34 anni.

Fonti

[1] Dai primitivi al post-moderno: tre percorsi di saggi storico-antropologici, di Vittorio Lanternari, Liguori Editore, 351

[2] Eurofound: The gender employment gap: Challenges and solutions, Luxembourg 2016, Publications Office of the European Union.

[3] Le Cesu, qu’est-ce que c’est

[3b] Prestazioni di lavoro occasionale: libretto famiglia

[4] Perspektive Wiedereinstieg: Startseite

[5]https://www.service-public.fr/particuliers/vosdroits/F345#:~:text=Le%20compl%C3%A9ment%20de%20libre%20choix,votre%20enfant%20et%20vos%20ressources.

[6]Elterngeld und ElterngeldPlus

[7] https://www.bmfsfj.de/bmfsfj/service/gesetze/gesetz-zur-besseren-vereinbarkeit-von-familie–pflege-und-beruf-/78226#:~:text=Angeh%C3%B6rige%20zu%20betreuen.-,Familienpflegezeitgesetz,Angeh%C3%B6rigen%20in%20h%C3%A4uslicher%20Umgebung%20pflegen.

[8] https://www.observatoire-qvt.com/charte-de-la-parentalite/presentation/#:~:text=La%20Charte%20de%20la%20Parentalit%C3%A9%20en%20Entreprise%20a%20%C3%A9t%C3%A9%20initi%C3%A9e,mieux%20adapt%C3%A9%20aux%20responsabilit%C3%A9s%20familiales.

[9] COVID-19 and the gender gap in advanced economies | VOX, CEPR Policy Portal

[10] Il 98% di chi ha perso il lavoro è donna, il Covid è anche una questione di genere 

[10b]  (Occupati e disoccupati (dati provvisori)

[11] File:Total fertility rate, 1960–2018 (live births per woman).png – Statistics Explained

[12] The 2021-2027 EU budget – What’s new? | European Commission

Quando l’emancipazione comincia da una bambola

L’altro giorno, mentre camminavo tra i corridoi di un negozio, sono capitata nella sezione cartoleria e non ho potuto fare a meno di notare il nuovo diario di scuola di Barbie. Era rosa, ovviamente, e la più famosa bionda dagli occhi blu sorrideva in copertina, ma c’era qualcosa di diverso. Barbie portava gli occhiali, teneva una matita ed era seduta vicino ad una pila di libri con un mappamondo in cima. In aria, sopra la sua testa, c’erano degli oggetti fluttuanti, quasi a rappresentare quello che stava pensando: un quaderno, delle stelle, una lampadina che chiaramente simboleggiava un’idea, un razzo, un atomo, una matita e un pennarello. A quel punto ho visto il nuovo slogan di Barbie, proprio lì sull’angolo destro a caratteri cubitali: FUTURE LEADER.

Barbie Office

Vedere questo diario mi ha un po’ riportato all’infanzia per un attimo. Non sono mai stata una fan accanita di Barbie, innanzitutto perché i miei genitori erano molto scettici su di lei, ma anche perché non mi sono mai realmente vista in questa bambola: avendo i capelli e gli occhi scuri ed una carnagione olivastra, da bambina preferivo altre bambole più simili a me. Eppure, nonostante le altre sottomarche di bambole, ho avuto anche una Barbie. Mi ricordo che era stato un regalo di mia nonna ed era l’edizione con l’ufficio negli anni 90.

In un certo senso, la Barbie Ufficio aveva uno scopo e da bambina la trovavo più interessante di altre edizioni, anche se non era chiaro per me in che cosa consistesse effettivamente il suo lavoro né perché dovesse avere la sua faccia sul computer e sul calendario sulla sua scrivania. Ad ogni modo, Barbie era semplicemente un personaggio nelle storie che immaginavo mentre giocavo con le altre mie bambole, piuttosto che qualcuno a cui io potessi aspirare a diventare. Ed ora, nel 2020, potete immaginare che gran sorpresa questo diario sia stato per me. Barbie viene illustrata come futura leader, come un modello da seguire che non limiterebbe le ragazze ad ambire ad essere in un certo modo, ma a rendersi conto del vasto spettro di possibilità che questo mondo moderno e globalizzato offre: Barbie ora sta dicendo alle ragazze e alle donne che possono essere leader in qualsiasi cosa si mettano in testa di fare ed è così che la legittimazione delle donne e la parità di genere hanno inizio. Questa scoperta mi ha portata a fare un po’ di ricerca.

Quest’anno in particolare, la Mattel ha lavorato ad una nuova collezione di Barbie con tre priorità principali: sport, scienza e neutralità di genere[1]. In effetti, la Mattel ha avuto qualche difficoltà nelle vendite prima del 2014 e questo ha costretto la compagnia a rivoluzionare il loro prodotto e il loro brand. Barbie veniva percepita come lontana dalla realtà e i genitori, proprio come i miei, storcevano il naso quando si trattava dell’influenza che questa bambola potesse avere sulle loro figlie. Quello che ne seguì fu un’organizzazione in base alle priorità di creazione della cultura da essere associata al brand Mattel e, in particolar modo, alla Barbie: non era mai stata solo un giocattolo e questo significava che era arrivato il momento di espandere i valori che promuoveva. Al fine di creare una cultura, Richard Dickson, Presidente e Chief Operating Office, insieme al team di Mattel ha optato per un inizio da zero con il loro stile di leadership. Il brainstorming e l’accoglienza di nuove idee si tradusse in una leadership più empatica che avrebbe portato la Mattel ad essere pronta ad affrontare dei rischi e, soprattutto, a celebrare i fallimenti lungo la strada verso la soluzione al problema. La rivoluzione interna della compagnia si è decisamente riflettuta sulla conseguente produzione: Barbie ha allargato il concetto di “modello da seguire” e, ancora una volta, si è adattata a ciò di cui la società aveva bisogno.

Questa bambola è riuscita a sfidare il mondo dei giocattoli sin dalla sua prima comparsa nel 1959, quando le bambine potevano solo giocare con i bambolotti. Barbie è divenuta l’immagine di qualcuno a cui le ragazze aspirassero a diventare, come una proiezione dei propri sogni, ma è innegabile che è anche stata la protagonista di diverse controversie[2]: la più conosciuta è sicuramente l’influenza sul rapporto che hanno le ragazze con il proprio corpo. Uno studio del 2006[3] pubblicato sulla rivista Developmental Psychology ha rivelato che le ragazze esposte alle Barbie in un’età dai 5 agli 8 anni sono più tendenti a soffrire di bassa autostima e insoddisfazione del proprio corpo data la non conformità con un corpo magro. Col tempo, nel 2016, le Barbie Fashionistas hanno lanciato tre tipi corporatura di Barbie: alta, curvy e petite[4]. Tuttavia, secondo una ricerca del 2019[5], una scelta più ampia di bambole non è stata in grado di cambiare il pregiudizio contro il peso: la maggior parte delle bambine preferisce comunque giocare con la classica Barbie magra. La strada per l’accettazione di sé e l’amore per sé stessi nella società è ancora lunga, ma Barbie ci sta provando.

 

Fotografia del nuovo diario di scuola di Barbie 2020 scattata personalmente

Mentre davo un’occhiata al sito ufficiale[6], mi sono imbattuta nella collezione di Barbie Presidente e Vice Presidente[7], rilasciata originariamente nel 1992. In realtà, solo nel 2012 la Barbie candidata presidenziale caucasica è stata affiancata dalle Barbie afro-americana, asiatica e ispanica, ed è stato solo nel 2016 che l’idea di una squadra tutta al femminile venne realizzata[8]. Quest’anno si tratta di un omaggio alle elezioni Presidenziali del 3 Novembre negli Stati Uniti, in collaborazione con She Should Run[9], e promuove due delle più alte cariche di leadership con slogan come “you can be a leader” (puoi essere una leader) o “girls lead!” (le ragazze dirigono!), ma non si ferma qui: alcuni video, strumenti e giochi guidano sia bambini che genitori su come parlare di leadership e come i sogni di leadership vengano espressi giocando con una Barbie. C’è anche il supporto della collezione Team Campagna Elettorale: la responsabile di raccolta fondi per la campagna, la manager della campagna, la candidata e l’elettrice. Parallelamente, il 2020 sembra concludersi con un promettente passo in avanti in termini di emancipazione ed inclusione nel nuovo mandato presidenziale degli USA. Infatti, oltre alla scelta di Kamala D. Harris come candidata alla Vice-Presidenza, le squadre di governo per l’economia e per la comunicazione del Presidente-eletto Joe Biden non saranno soltanto composte da donne, ma esse saranno anche di diverse etnie (10). Tutto questo rende l’idea di una squadra tutta al femminile lanciata da Barbie non così lontana dal diventare prima o poi realtà. Dalla Barbie Astronauta nel 1965 alla Barbie Amministratore Delegato e la campagna “Noi Ragazze Possiamo Fare Tutto” nel 1985, Barbie si è sempre fatta strada nei cuori di miliardi di bambini. Nonostante sia stata etichettata come un modello per bambine sin dalle sue origini, combatte contro i ruoli di genere e gli stereotipi da oltre 60 anni ed ha abbattuto le mura del “Barbie world”. La mia generazione ha avuto la fortuna di assistere alla sua più impattante evoluzione e tenere quel diario tra le mani mi ha dato speranza per una nuova generazione che penserà fuori dalle righe sin dalla tenera età per quanto riguarda il loro futuro. Immaginare una bambola che ambisce a diventare una leader porta un bambino o una bambina a immaginare anche loro stessi ambire a diventare leader e non più semplicemente a giocare con una “Barbie girl in a Barbie world”.

Paula Panettieri

[1] https://www.forbes.com/sites/shaheenajanjuhajivrajeurope/2020/03/03/innovation-and-diversity-the-powerful-combination-behind-barbies-new-line-up/#36a3f2e24b37

[2] https://www.rd.com/list/barbie-doll-controversies/

[3] Dittmar, H., Halliwell, E. & Ive, S. (2006). Does Barbie make girls want to be thin? The effect of experimental exposure to images of dolls on the body image of 5- to 8-year-old girls. Developmental Psychology. Mar;42(2):283-92.

[4] https://www.elle.com/culture/art-design/news/a33593/barbie-fashionista-new-body-types/

[5] Harriger, J. A., Schaefer, L. M., Thompson, J. K. & Cao, L. (2019). You can buy a child a curvy Barbie doll, but you can’t make her like it: Young girls’ beliefs about Barbie dolls with diverse shapes and sizes. Body Image. Sep; 30:107-113.

[6] https://barbie.mattel.com/shop

[7] https://barbie.mattel.com/en-us/about/president-and-vice-president.html

[8] https://www.rd.com/list/what-barbie-looked-like-decade-you-were-born/

[9] https://www.sheshouldrun.org/what-we-do/

[10] – The Washington Post

Donne italiane: fotografia di una solidarietà dimenticata

“Alla fine andrà tutto bene. E se non andrà tutto bene, allora non sarà la fine”. Il cieco ottimismo della nota frase di John Lennon sembra riassumere perfettamente il carico emotivo dei due mesi di quarantena appena trascorsi. La diffusione del Covid-19 ed una condizione di isolamento tutt’altro che ordinaria ci hanno indotti a ripensare al nostro tradizionale rapporto con lo spazio circostante, a riformulare la nostra identità nelle relazioni affettive e professionali, con la solitudine, con il futuro. I messaggi di grande speranza e la percezione di combattere contro un “nemico comune” hanno rafforzato in noi la consapevolezza di dover diventare realmente più tolleranti e solidali. Migliori, in una parola. Che il mondo a fine quarantena sarebbe stato diverso, questo è certamente un dato di fatto. Diverso, però, non vuol dire necessariamente migliore. Volendo citare la formula del costruttivista Alexander Wendt: “il mondo è ciò che gli uomini ne fanno”; e anche se il politologo, nel 1992, parlava di Stati e di sistema internazionale, l’attualità di questa frase ci mostra quanto la storia tenda davvero a ripetere sé stessa, e l’uomo a non imparare dai propri errori.

Durante il lockdown, i balconi di tutta italia si sono colorati di arcobaleni e bandiere italiane come questa in figura con la scritta "Andrá tutto bene" e l'hashtag #iorestoacasa

Svariati episodi hanno ben presto rivelato quanto il sentimento di unione e solidarietà tanto decantato fosse una mera patina pubblicitaria. Sembra non si sia mai smesso di ricercare un colpevole, di fare recriminazioni, di alimentare la paura dell’altro – altro in quanto diverso o perennemente identificato in soggetti ritenuti deboli e fragili, destinatari di critiche e accuse di ogni genere. Ancora una volta il virus del pregiudizio, ben più pericoloso del temutissimo Covid-19, è riuscito a gettare solide radici in condizioni assolutamente inattese. Credo che le donne, in questo processo, siano tra le vittime principali: gli haters, specialmente sul web, ed un giornalismo cattivo, spicciolo e di parte, [1] si scatenano con gusto, spesso avvalendosi di un linguaggio che non solo facilita la discriminazione e la vittimizzazione delle donne, ma soprattutto deresponsabilizza chi ne scrive. Questo soprattutto se si parla di donne libere, coraggiose e forti, la cui colpa peggiore è proprio la consapevolezza di essere tutto ciò. Dopotutto, cosa c’è di più fastidioso di una donna che non si piega, non è accondiscendente ma, al contrario, afferma con convinzione le proprie scelte di vita? È ciò che è emerso nell’ultima edizione del Barometro dell’Odio di Amnesty International, chiamato “sessismo da tastiera”: gli utenti hanno una maggiore propensione ad attaccare le donne rispetto agli uomini, con commenti di hate speech, incitamento all’odio, superiori di 1.5 volte.[2]

A riconferma di ciò, la recente liberazione di Silvia Romano, evento che ha catalizzato livelli d’odio senza precedenti. Ad essere messo alla gogna, il presunto spirito da crocerossina della ragazza, determinata a seguire con forza il proprio obiettivo di vita, quello di aiutare i bambini in difficoltà in Kenya. Molti di coloro che hanno sempre supportato il mantra “aiutiamoli a casa loro” si sono improvvisamente coalizzati contro chi era effettivamente intenzionata ad aiutarli a casa loro, pronti a sfoggiare luoghi comuni ben peggiori, come quello del “se l’è andata a cercare”.[3] Non sono mancati commenti di matrice pornografica, su come Silvia si fosse divertita con i suoi rapitori durante i 18 mesi di prigionia, oltre che commenti circa l’abito islamico indossato al momento del suo rientro in Italia o la decisione di cambiare il proprio nome in Aisha – tra i principali punti della polemica sul suo riscatto. Un riscatto pagato per una ragazza tacciata di essere “ingrata”, una donna convertita che ha, per questo, tradito la propria Patria, al punto da essere accusata di neoterrorismo, come affermato dal Parlamentare della Lega Alessandro Pagano.[4] L’ironia della sorte vuole che, dopo un rapimento di un anno e mezzo, Silvia rischi di finire sotto scorta, e questo nel suo Paese, poichè diventata bersaglio privilegiato di una campagna d’odio e della violenza verbale dei suoi stessi connazionali. Alla base di tutto, sembrerebbe esserci come sempre una questione di genere: la tendenza, ovvero, a guardare con intolleranza e contrarietà una donna che sceglie liberamente di seguire il proprio obiettivo di vita e andare a prestare aiuto autonomamente in zone di crisi. A prova di ciò, nessun commento ha infatti accompagnato la liberazione di Luca Tacchetto, italiano rapito in Mali nel 2018, un’area tanto pericolosa quanto quella in cui si trovava Silvia. Alla conversione del ragazzo alla religione islamica e al pagamento di un riscatto per la sua liberazione non hanno fatto seguito accuse di alcun genere: l’essere uomo lo ha probabilmente esentato da certi tipi di insinuazioni.[5]

Sovranismo e sessismo sembrano essersi irrimediabilmente fusi, facendo di Silvia Romano un simbolo di anti-italianità, e ci si è appigliati a qualsiasi aspetto per portare avanti questo tipo di narrazione. C’è chi si è soffermato sulla sua giovane età o chi ancora, ossessionato dal dogma di “prima gli italiani” ha criticato la scelta di andare a fare del bene fuori dai confini nazionali.[6] La realtà dei fatti è che nel 2020, purtroppo, il binomio donna-libertà fa ancora paura, innesca una sorta di blackout nella mente di chi crede che le donne possano essere libere solo a certe condizioni tacitamente accettate: non mettere in discussione la preminenza maschile nella società. Il sessismo da rete mira ad attaccare le donne in modo personale ed esplicito, avvalendosi principalmente di stereotipi e false rappresentazioni. Commenti riguardanti anzitutto la sfera dell’aspetto esteriore e come quest’ultimo influenzi il loro ruolo pubblico, – la donna è troppo appariscente o lo è troppo poco – commenti inerenti alla sfera della sessualità, – la donna si concede troppo facilmente o non abbastanza – l’ambito della vita professionale o privata – eccessiva dedizione al lavoro piuttosto che alle questioni di presunta “reale” competenza, quelle domestiche. Si può emergere e fare carriera, certo, ma senza esagerare pensando di poter competere con la figura maschile, altrimenti diventa chiaro il ricorso a raccomandazioni sottobanco. Si può fare l’inviata all’estero ed essere una delle migliori giornaliste a livello nazionale, ma se ci si presenta in video con i capelli spettinati o il viso stanco si deve soccombere alla marea di critiche che arriveranno sull’estetica, alle infinite ironie per essere poco appetibile.[7]

La giornalista Giovanna Botteri, corrispondente Rai da Pechino, risulta da anni vittima di battute sul suo aspetto; battute tese a fare dell’ironia spicciola su una professionista nel cui lavoro, però, l’estetica c’entra ben poco. Come se l’abito o il taglio di capelli scelti potessero influenzare la capacità e qualità di informazione – le cose realmente importanti, per inciso; come se una giornalista debba necessariamente rispettare determinati canoni estetici per fare bene il proprio lavoro, per essere inattaccabile. Ecco che certe ironie, fatte nel tentativo di dimostrarsi sagaci e strappare un sorriso, finiscono semplicemente per mostrare l’assoluto maschilismo e grettezza delle menti che le hanno partorite.[8] Questo genere di insulti non è tanto distante da quelli rivolti a Carola Rackete, capitana della Sea Watch 3 che, nel giugno 2017, ha forzato il divieto di entrare nelle acque italiane per far sbarcare i migranti per portava a bordo sull’isola di Lampedusa. Anche in quella occasione, l’assoluta determinazione con cui la ragazza ha difeso la propria identità e, soprattutto, le vite umane, ha dato il via ad una spirale infinita di commenti sessisti e misogini sul suo conto: appellativi tutt’altro che carini, insinuazioni circa rapporti sessuali con i naufraghi a bordo, addirittura c’è chi le ha augurato lo stupro.[9] In via paradossale, poi, sono spesso proprio esponenti politici, ministri, alte cariche dello Stato a lasciarsi andare ad una pioggia di commenti sessisti dimostrando quanto questo tipo di linguaggio, spesso sotto forma di battute, serpeggi incontrollato. Proprio chi dovrebbe garantire e preservare la libertà e l’individualità tenta, invece, di arginarla quasi fosse un pericolo per la società.[10]

Il dato più preoccupante è che Silvia, Giovanna, Carola rappresentano soltanto i più recenti casi di un fenomeno assolutamente diffuso di cui ogni giorno fanno spesa tantissime donne forti e determinate. Si pensi alla ministra Teresa Bellanova, destinataria di commenti poco lusinghieri circa la forma fisica e l’abito scelto per il giuramento al Quirinale. Fatau Boro Lu, ex candidata europeista, è diventata oggetto di insulti razzisti e sessisti per aver osato criticare (lei, donna e con la pelle scura) le politiche di Salvini e la gestione della vicenda Sea Watch. Un’escalation di commenti razzisti e antisemiti ha toccato anche la senatrice Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz e testimone attiva della Shoah, tanto da essere messa sotto protezione di una scorta. La stessa Laura Boldrini, ex presidente della Camera dei deputati, sin dal suo insediamento, è stata oggetto di una campagna denigratoria, bufale e maldicenze sul suo conto e sulla sua famiglia.

Commenti così feroci creano un senso di tristezza e frustrazione poiché generati da ciò che queste donne rappresentano: un’immagine di solidità e fermezza. Dinanzi a donne del genere, è come se il pensiero patriarcale andasse in tilt, recependole come sbagliate, quasi contro natura. La loro esperienza, al contrario, dovrebbe costituire il punto di partenza per scardinare modelli ormai obsoleti che non hanno più ragione d’esistere. L’insegnamento è quello di trasformare la frustrazione in volontà di elevarsi, di seguire la propria strada, essere libere di esprimere se stesse. Perché c’è sempre qualcosa di fastidioso in una donna che usa il cervello, che non accetta di essere un oggetto sessuale; qualcosa che va probabilmente al di là delle semplici azioni compiute: la capacità di scegliere il proprio destino e portarlo avanti con determinazione.

Antonella Iavazzo

 
 

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