Stando agli scritti freudiani, unheimlich è ciò che non è familiare, intimo, conosciuto e, tuttavia, è caratterizzato proprio da alcuni tratti familiari, intimi, conosciuti che però assumono una forma diversa. Unheimlich è l’estraneo dentro casa. E’ perturbante esattamente perché il disagio e pure la paura ad esso connessi sono determinati dal labile confine tra estraneità e familiarità. Nello spazio di questo dualismo attivo, poiché fa affiorare ciò che dovrebbe invece restare nascosto, si apre la risata del Joker di T. Phillips. Lo stesso J. Phoenix, a proposito della risata del personaggio che interpreta, afferma che è contemporaneamente “terrifying and exciting”, di conseguenza intimidatoria e straniante – sensazioni costanti per lo spettatore, sia che si tratti della risata dolorosa, soffocata e soffocante di Arthur Fleck sia che si tratti di quella fiera, disinibita e ostentata di Joker. In effetti, benché essa si evolva con l’evolversi del protagonista, non smette di dispiegarsi come una risata che spesso spacca il silenzio e a volte sovrasta il rumore, improvvisa sul nascere e sul finire, assecondante la vita interna del soggetto e priva di regole morali – come quando, sulla metro diretta verso casa, Arthur scoppia a ridere mentre una ragazza viene molestata da tre giovani altolocati. Il riso, familiare a tutti noi in quanto sinonimo di ilarità e di distensione, diventa un elemento estraneo in quella specifica circostanza di nervosismo palpabile che richiederebbe, invece, grande attenzione e serietà. Nemmeno i giovani riescono a decifrarlo: lo considerano come esternazione di divertimento o di beffa, poi esplodono i colpi di pistola e l’eco di quel riso fa davvero paura. Emerge l’inquilino nascosto che abita in quella risata: il malessere profondo di un’esistenza.

La percezione di tale malessere è possibile non soltanto per coloro che, dall’esterno, prestano attenzione alla vita di Arthur, ma anche per Arthur stesso che, non di rado, più che vivere si sente vivere – come quando, vedendo in onda sul programma tv di Murray lo sketch che aveva eseguito qualche tempo prima su un piccolo palco di stand-up comedy, egli è spinto a sentire di nuovo profondamente quel momento. Questa volta, però, con gli occhi irridenti del pubblico. Pirandellianamente, il passaggio dal vivere al sentirsi vivere è drammatico e può essere pericoloso perché produce la caduta delle forme fittizie dell’identità individuale: l’uomo si percepisce scomposto in frammenti identitari che convivono e che complicano le distinzioni tra il dentro-di-sé e il fuori-di-sé. Da questo istante in poi, il tentativo di tornare alla coscienza normale delle cose porta in nuce il rischio di morte o di pazzia. Arthur è al contempo il vincente che dopo anni di anonimato è stato finalmente notato e ora dispone di un’occasione televisiva per realizzare il suo sogno di comico, ma anche il misero perdente che è chiamato ad affrontare di nuovo la derisione, questa volta a reti unificate.



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In questo malessere, la risata trova il modo di farsi rivincita sui torti subiti, di farsi arma, e traccia i confini sfumati del male. Così è per il Joker di Phillips, ma anche per il signor Anselmo di Pirandello nel racconto Tu ridi (Novelle per un anno, 1924). In entrambi i casi, i personaggi sono scoordinati col mondo, ridono fuori tempo quando non dovrebbero e questo loro ridere diventa sinonimo di diversità, quasi un’accusa. Il signor Anselmo ride nel sonno con una “risata larga, gorgogliante”, si potrebbe dire non sorvegliata, scaturente direttamente dall’inconscio dandogli spazio. Come quella di Joker. Ogni notte, quando la moglie lo rimprovera per essere stata svegliata dal suo riso improvviso, il signor Anselmo è “stupito, mortificato, quasi incredulo” e l’“irritazione e mortificazione, ira e cruccio” che prova somigliano tanto a quelli di Arthur, sempre in dovere di fornire spiegazioni per una reazione incontrollabile che nemmeno lui sa realmente motivare. Il sospetto comune è che sguazzino “in chi sa quali beatitudini”, eppure di quelle beatitudini nessuno dei due sa nulla; anzi, comprendono, loro malgrado, che ridere può essere una manifestazione di frustrazione, un desiderio incompreso di felicità e distacco dalle proprie miserie. Il momento della comprensione, però, avviene “per combinazione” e segna un passaggio fondamentale: la risata smette di essere passivamente subita e si fa azione aggressiva, strumento attivo di riscatto personale. Il signor Anselmo assume i connotati del tormentatore “del povero Torella”, mentre Arthur quelli eccentrici del Joker. La vera differenza tra i due è che quest’ultimo trasforma i sogni di rivalsa in una decisione consapevole. In una realtà. Non solo: Joker ride per destrutturare questa stessa realtà che ingabbia l’individuo, per riportarla ad una essenza informe, caotica. Ciononostante, mentre ride, indossa una maschera, come se non fosse in grado di liberarsi di un’identità castrante attribuitagli dall’esterno se non attraverso l’assunzione di un altro schema identitario. Alla base c’è la volontà di trovare il proprio posto nel mondo, venendo riconosciuti come esseri umani complessi, e la difficoltà estrema che una simile ricerca provoca.



Ecco allora che la risata, sia la sua sia quella che suscita negli altri, diviene una manifestazione visibile dello scontro tra interiorità e società ed esorta alla riflessione tanto quanto il suo viso così esageratamente truccato in cima al suo corpo emaciato. Tale riflessione è generata proprio dal fatto che l’uomo che ci si trova davanti ha una natura essenzialmente tragica inserita, tuttavia, in un contesto potenzialmente comico. Per dirla con Pirandello, nel film di Phillips il sentimento del contrario è manifesto, tangibile e distintivo di un uomo che, quindi, non può che essere umoristico. Per questo, sebbene Joker sia un pazzo, in un certo senso siamo portati ad empatizzare con lui – perché ne comprendiamo il dramma dietro il riso, cioè appunto la natura umoristica, ed anche lo sforzo nel tentativo di tornare ad una coscienza normale che fanno di Joker la lucida pazzia di Arthur. Joker piace sicuramente perché intavola un discorso sulla condizione umana, ma, credo, piace soprattutto perché lo fa disarticolando l’idea di eroe malvagio monolitico: se mai la nostra epoca può dirsi ancora culla di eroi, quelli a cui dà vita e a cui si interessa sono, nel bene e nel male, uomini – uomini in rivoluzione.
di Livia Corbelli
Bibliografia
– T. Phillips, Joker, 2019 (film)
– L. Pirandello, L’Umorismo, 1908
– S. Freud, Il perturbante, 1919
– L. Pirandello, “Tu ridi”, in Novelle per un anno, 1924
– www.youtube.com/watch?v=4WcjedC44FU
– www.youtube.com/watch?v=ThYJUZtNXt0