J’ai perdu mon corps – la storia di un’identità mutilata

Se da un film d’animazione ti aspetti una mera funzione di intrattenimento, è il caso che tu ti metta in discussione. Soprattutto se l’animazione è destinata a un pubblico adulto. Questo articolo non è una recensione ma un percorso interpretativo interdisciplinare che dialoga con la letteratura, con la critica cinematografica, con la semiotica. È un tentativo di tenere traccia dell’immagine attraverso la parola espressiva. Uno sguardo analitico, pronto a cogliere nel cinema dettagli, citazioni, riferimenti interni, può contribuire all’individuazione, o addirittura alla costruzione, di plusvalori semantici. Leggere il cinema attraverso la letteratura: più che un divertissement, un bisogno di fermo-immagine da dilatare con la scrittura. Che tu sia uno spettatore occasionale o un fervente appassionato, non importa. Puoi seguire le orme di questo passo leggero, che non si addentra ma sfiora appena. Accogliere le suggestioni o respingerle: a te la scelta.

L’incontro del cinema d’animazione con la letteratura è già intuibile se si guarda alla sceneggiatura del lungometraggio: libero adattamento dal romanzo Happy Hand (2006) di Guillame Laurant, già noto come sceneggiatore de Il favoloso mondo di Amélie. 81 minuti di «romanticismo e azione»[1]  ̶  così li ha definiti l’animatore parigino  ̶ suggellati da una ricezione pienamente positiva da parte della critica. L’esordio al lungo di Jérémy Clapin non passa inosservato, tanto da meritare prestigiosi riconoscimenti (dopo il trionfo a Cannes, i premi ai Cesar e ai Lumières Awards) e nomination (come quella agli Academy Awards 2020).

J’ai perdu mon corps, I lost my body, Dov’è il mio corpo? Sempre valida l’espressione proverbiale «tradurre è un po’ come tradire». Dov’è il mio corpo? diluisce la densità semantica del titolo originale. Una densità tutta concentrata nel verbo perdu. E non è solo una pedanteria formale: è una perdita irriducibile, una mutilazione, fisica ed esistenziale, a innescare il congegno narrativo. A sorreggere l’impalcatura registica, e l’intreccio dei diversi piani temporali, è una ricerca. Una ricerca motivata dalla perdita dell’interezza. Uno smembramento accidentale ma necessario, perché salvifico.

Con una mescolanza di 3D e 2D, J’ai perdu mon corps racconta una quête cruenta. Due i nuclei narrativi, cronologicamente indipendenti, che progressivamente si intersecano e, alla fine, si tangono. L’infanzia di Naoufel e le peripezie underground di una protagonista anomala: una mano mutilata.  L’evasione dalla cella frigorifera di un laboratorio di dissezione è l’incipit di una fuga rocambolesca. Con un artificio narrativo che il formalista russo Viktor Borisovič Šklovskij definì per la prima volta ostranenie, il regista sottrae lo spettatore dall’ «automatismo della percezione»[2]. Attraverso l’espediente dello straniamento – verfremdung per Bertold Brecht ̶ la mano antropomorfa vive momenti lirici di grande levatura spirituale. Facendo lentamente scivolare le dita, siede sul davanzale. Il pericolo è ormai lasciato alle spalle e la mano può contemplare dall’alto i tetti di Parigi, che hanno sapore di libertà. Davanti a sé, un inesplorato spazio urbano per muovere i primi passi. Ha qui inizio un viaggio surreale ̶  un dejavu  ̶  lungo i tetti, i bassifondi, le discariche di Parigi. La meta?  Il proprio corpo perduto.

Una stazione ferroviaria sotterranea diventa quindi il setting di una lotta territoriale con dei ratti, in pieno stile Far west. La contesa è risolta grazie alla fortuita presenza di un’arma occasionale: l’accendino, ancora funzionante, lasciato cadere per terra da un passante.  «Quando uno mi paga, porto sempre a termine il lavoro» dirà in un secondo momento Naoufel, simulando un colpo di pistola con il gesto della mano destra. Una citazione tratta da Il Buono, il Brutto e il Cattivo (1966) di Sergio Leone, film preferito di Naoufel. Che non lasci intravedere un debole di Clapin per il western? In ogni caso, il viaggio della mano mutilata segue delle traiettorie spaziali orizzontali e verticali: quasi un Bildungsroman[3] animato.

«Lo so che è difficile, non sempre riesce. C’est la vie». L’altro percorso di formazione, sia essa irrimediabilmente interrotta o tardivamente conseguita – agli spettatori la sentenza ultima ̶ è quello di un ragazzo poco più che adolescente. Naoufel è il maldestro fattorino di Fast Pizza, trasferitosi da Rabat a Parigi dopo la morte dei suoi. Di quella morte Naoufel avverte e assume su di sé tutto il peso tragico. Il senso di colpa lo perseguita, lo attanaglia, lo pungola, come la mosca che ossessivamente si ripresenta e che appartiene a un ricordo. Un ricordo d’infanzia, il primo dei tanti momenti di throwback in bianco e nero: un bambino che tenta di catturare una mosca invano.

Nel processo mnemonico, una grande importanza è assegnata alle percezioni visive e sonore. Le modalità attraverso le quali è rievocata l’infanzia di Naoufel catapultano lo spettatore in un’atmosfera che forse deve un tributo a À la recherche du temps perdu di Marcel Proust. Legittimo azzardo suggerire un riferimento letterario implicito dal momento che non mancano quelli espliciti. Il mondo secondo Garp (1978)di John Irving è il romanzo preferito di Gabrielle: l’opera dell’autore americano che ha ispirato l’omonimo film di George Roy Hill con Robin Williams. Un romanzo che parla di femminismo, di sesso e di un incidente d’auto fatale. Di un padre dilaniato dalla colpa della morte del figlio. Non si fatica a individuare nel plot del romanzo una situazione speculare a quella di Naoufel. E ancora, nella biblioteca parigina Guy De Maupassant, il ragazzo prende in prestito Planète Pôle Nord: Récit d’une expédition di Tom Laffines[4] e l’opera di Clarisse Doyle: in realtà titoli fittizi di una letteratura immaginifica.

Ma ci sono anche dei personaggi secondari sui quali si riflette la condizione esistenziale dell’eterno bambino. Naoufel, ospite sgradito, condivide con un lontano cugino un’angusta stanza a Parigi. I muri della stanza sono tappezzati di poster: auto da corsa, donne, pugilato (un osservatore attento potrebbe scorgere il poster di Rocky Balboa). Uno stereotipo di machismo che inibisce la crescita del ragazzo, sensibile ma introverso e apatico. Incapace di autodeterminarsi perché gravato da un senso di colpa indicibile: la mosca che ritorna ossessivamente e che non ha mai catturato. Suggestivo che, dopo l’esperienza lavorativa con il delivery food, decida di fare apprendistato in una falegnameria. Un goffo tentativo di essere quel homo faber che l’esistenza gli ha precluso.

La mancata identificazione con un modello maschile e l’incontro con la figura femminile che subisce continue dilazioni. Il primo contatto è una percezione sonora, una voce al citofono lontana e irraggiungibile come l’eco della voce materna. Una voce epifanica che instilla un desiderio di evasione dalla routine meccanica, dai gesti alienanti che si consumano in una Parigi indifferente, cinica, deturpata, assuefatta. Una Parigi che espelle dal suo grembo quel corpo estraneo.

Lo smembramento del corpo diventa quindi la trasposizione fisica di una perdita irreversibile. Diventa la crepa del vaso che quello spietato tempo meccanico dell’orologio non contempla. Ma lo smembramento è l’estrema affermazione di una necessità: quella di ricucirsi, perché l’unica consapevolezza possibile deriva dalla perdita. La crescita non può quindi compiersi senza affrontare una mutilazione. Naoufel attende un «dribbling»: una deviazione dal destino per cambiare la propria sorte, per emanciparsi dal fatalismo che lo tiene prigioniero in un corpo prepubere.  E quel «dribbling» alla fine arriva. Ed è un’altra mutilazione.

Giovanna Fumia


[1] https://cineuropa.org/it/video/372727/rdID/371234

[2]Riferimento da: G. Kraiski, Introduzione a I formalisti russi nel cinema, a cura di G. Kraiski, Milano 1971

[3] Letteralmente, “romanzo di formazione”. Il termine si riferisce a un genere letterario che segue da vicino la crescita psicologica del protagonista e, in particolare, il rito di passaggio che segna il confine tra l’età infantile e l’età adulta (da intendere in termini non biologici ma psico-emotivi). Il termine tedesco è di difficile traduzione perché contiene al suo interno non solo l’idea del processo (di formazione) ma anche il risultato dell’azione (il raggiungimento di una maggiore consapevolezza di sé in rapporto al milieu). Per un primo approccio si consiglia la lettura di questo articolo divulgativo: https://www.bwtraduzioni.it/che-cose-il-romanzo-di-formazione-o-bildungsroman/.

[4]https://cinematic-literature.tumblr.com/post/190109425387/jai-perdu-mon-corps-2019-by-j%C3%A9r%C3%A9my-clapin-book

Altre letture:

https://cineuropa.org/it/film/371234/

https://www.theguardian.com/film/2019/nov/24/i-lost-my-body-review-french-animation-jeremy-clapin-severed-hand

https://www.gqitalia.it/show/article/i-lost-my-body-netflix-recensione

https://quinlan.it/2019/06/03/jai-perdu-mon-corps/

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