Come diceva De André, “il dolore degli altri è dolore a metà”[1]. In altre parole, quello che succede lontano da noi ci tocca soltanto in maniera effimera. Mentre leggiamo un articolo, mentre ascoltiamo una notizia alla tv, o durante una discussione tra amici; ma a volte, col tempo o grazie al rumore provocato da un evento particolare, quello che era soltanto una menzione, un non-evento o una situazione trascurabile assume un certo rilievo e diventa insopportabilmente visibile: non possiamo più ignorarlo. Credo che sia proprio questo quello che sta succedendo con gli Uiguri in Cina.
Un “genocidio” culturale silenzioso
Nonostante l’inattività dei grandi capi di Stato, il rumore si fa sempre più forte con il peggiorare della situazione e non si può più fare finta di nulla. grandi marche vengono messe sotto accusa, video vengono divulgati, i superstiti testimoniano. Uomini e donne allineati, occhi bendati e mani legate; sterilizzazioni forzate; voci di traffici di organi illegali… L’orrore di quello che sta succedendo nella provincia del Xinjiang non può più essere ignorato. Diverse ONG accusano la Cina di diversi crimini contro l’umanità: Human Rights Watch denuncia arresti ingiustificati e l’uso della tortura; gli esuli Uiguri parlano di “etnocidio” (cioè la “distruzione di un gruppo etnico o del suo patrimonio culturale”[2] senza necessariamente pregiudicare l’integrità fisica degli individui) e sono sostenuti dall’ONG Genocide Watch, che a luglio affermava che un vero e proprio “genocidio” degli uiguri stava avvenendo[3]. Nonostante prove schiaccianti, quarantasei Stati (la maggioranza dei quali sono paesi a maggioranza musulmana) hanno ufficialmente dichiarato di sostenere la Cina; rispondendo così a una lettera che denunciava la “situazione nello Xinjiang” mandata all’ONU da ventidue altri paesi. Nonostante ciò, nessuna misura concreta è stata presa dalla comunità internazionale; ma soprattutto, la regola del politichese è stata largamente applicata: nessuna menzione di nessun “etnocidio”, tanto meno di un “genocidio”.
È con grande ingenuità che mi chiedo: ma perché? Perché niente è stato fatto? Perché tanti paesi musulmani sostengono una tale repressione contro una minoranza musulmana? Perché non c’è nessuno che usi parole esatte, precise, così da dire in modo chiaro quello che sta davvero accadendo nello Xinjiang e agire?

Che cos’è un genocidio?
Per aiutarmi a capire, ho deciso di informarmi sulla parola stessa di “genocidio” e sui fatti storici che potrebbero corrispondere alla sua definizione. Per quanto riguarda la seconda parte, ovviamente mi viene naturale fare riferimento all’Olocausto, il genocidio degli ebrei e dei Rom (tra gli altri), perpetrato dai nazisti. Poi, pensandoci, a scuola ho sentito parlare anche di altri “genocidi”: come quello degli armeni o dei Tutsi. Ma alla fine, mi rendo conto di quanto poco conosca su questi tempi bui della Storia. È spaventoso aprire la voce di Wikipedia che fa l’elenco di tutti i “genocidi” e “massacri di massa”[4] e trovarsi davanti a una lista interminabile di nomi, paesi e dati. Più abbattuta che informata, apro finalmente il mio vecchio Larousse[5], nel quale la definizione di “genocidio” riporta in maniera fedele quella della “Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio” dell’ONU, adottata nel 1948: “per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale: a) uccisione di membri del gruppo; b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro”[6]. Questa definizione sembra darmi ragione: non solo può essere considerata come genocidio una repressione culturale (“mentale”) – quindi non necessariamente soltanto una repressione fisica ma anche una tecnica organizzata volta a “impedire nascite” può esserlo. In altre parole, esattamente quello che sta facendo lo Stato Cinese agli Uiguri proprio in questo momento. Perché allora non dire pane al pane e vino al vino?

Ovviamente, dobbiamo prendere in considerazione le difficoltà nell’accumulare prove concrete, notizie certe, e, in generale, la verità su dei fatti complessi, essendo i genocidi il frutto di una storia socio-politica lunga e complicata. Ma dobbiamo anche considerare i fattori giuridici e politici. Anche quando diversi paesi, o addirittura i tribunali internazionali dell’ONU, riconoscono ufficialmente un atto di genocidio, il consenso internazionale non è quasi mai raggiunto – ed i dibattiti continuano. È il caso per la maggior parte dei genocidi (Olocausto escluso). Esiste ancora oggi un dibattito sul genocidio degli Armeni, successo tra 1915 e 1916. Ventinove Stati soltanto lo riconoscono come tale, e tra quelli che ancora non lo riconoscono, ritroviamo Regno Unito, Israele e – ovviamente – la Turchia. Inoltre, nel 2015, la Russia ha posto il veto ad un progetto di risoluzione dell’ONU per riconoscere il massacro di Srebrenica, avvenuto nel 1995 per mano dell’esercito Serbo contro più di 8 000 bosniaci, come un genocidio. Era già stato necessario aspettare sei anni per avere delle decisioni da parte dei tribunali internazionali che hanno riconosciuto il massacro come genocidio (il peggiore perpetrato sul suolo europeo dalla Seconda Guerra Mondiale). Ma poi, nel 2006, la responsabilità dello Stato Serbo non è stata riconosciuta. Quest’ultimo ha presentato le sue scuse ufficiali nel 2010 (quindici anni dopo il massacro), senza però mai usare la parola “genocidio”, fatto che continua a negare.

Sottigliezza di linguaggio in politica: genocidio, una parola tabù
Perché c’è tanta difficoltà a qualificare questi massacri come “genocidi”, soprattutto quando sono degli eventi che appartengono al passato – e, a volte, ad un passato lontano? Le ragioni sono sempre politiche: per la Turchia, riconoscere il genocidio degli Armeni vuole dire esporsi a pagare un risarcimento importante ai discendenti di vittime e superstiti; vuole dire mettere in dubbio dei valori stessi dello Stato Turco, perché i suoi fondatori sono apparentemente stati partecipi attivamente al genocidio.
Non posso infine fare a meno di notare che non riusciamo a parlare di genocidi mentre stanno accadendone. In altre parole, accettiamo di parlare – con tante difficoltà! – di genocidi soltanto quando sono finiti, e quindi, quando le vittime sono morte e sepolte. Al di fuori della confusione che può regnare sul momento, ci sono delle ragioni politiche forti che impediscono di dire le cose come stanno e, quindi, di passare all’azione. Quello che sta succedendo in Cina fa risuonare altri ricordi, più vecchi ma non abbastanza per poter giocare la carta dell’oblio. Nel 1994, in Ruanda, più di 800 000 Tutsi sono morti, in parte perché la comunità internazionale ha rifiutato di parlare di “genocidio”. Mentre la Francia stava mantenendo relazioni diplomatiche strette con i dirigenti Hutu responsabili del genocidio[7]; Israele vendeva armi al governo Hutu[8]; e il Regno Unito e gli Stati Uniti si opponevano a qualsiasi tipo di intervento militare in Ruanda. Dopo il loro fallimento in Somalia, gli Stati Uniti non volevano più impegnarsi militarmente in Africa. Per questo, hanno rifiutato di usare la parola “genocidio”, perché questo avrebbe costretto ad agire loro e gli altri membri delle Nazioni Unite – secondo i termini della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio che avevano firmato loro stessi. Quindi, la comunità internazionale ha lasciato morire migliaia di Tutsi perché affermare che quello che stava succedendo era un genocidio li avrebbe costretti a dare una risposta militare che l’Occidente non voleva dare.

Tutto sembra un po’ più chiaro ora. Dire apertamente che la Cina sta perpetrando un genocidio contro gli Uiguri avrebbe come conseguenza l’inimicarsi la seconda potenza economica del mondo. Abbiamo visto quanto la Cina da sola poteva paralizzare il mondo intero all’inizio della crisi sanitaria ed economica provocata dal Covid-19 – il crollo del mercato azionario, il blocco della produzione eccetera… Se l’Occidente e l’ONU possono ancora permettersi di prendere posizione, lo fanno soltanto con grande timidezza[9]. Come dice un articolo del giornale france Libération, pubblicato un anno fa, “la comunità internazionale non può più ignorare le atrocità condotte contro il popolo Uiguro, ma evita di parlarne per paura di ritorsioni economiche”[10]. Più precisamente, dire che lo Stato Cinese stia perpetrando un genocidio sugli Uiguri avrebbe come conseguenza l’obbligo di un intervento militare contro la Cina. In un contesto dove l’equilibrio della pace internazionale è così fragile, e dove il mondo intero dipende completamente della tecnologia e delle competenze cinesi per sopravvivere, qual è il valore di qualche migliaio di musulmani dello Xinjiang?
Non posso fare a meno di constatare che riconosciamo più facilmente il genocidio dopo che ha avuto luogo invece che mentre sta avendo luogo. Siamo ancora lontani dal poter “prevenire” i genocidi. Al massimo siamo capaci di portare davanti alla giustizia i responsabili dopo i fatti. Al di sopra di tutto questo, la Cina ha l’intelligenza di saper organizzare un genocidio “moderno”, senza sangue né cadaveri, pianificato sul lungo-termine, e sulla base del controllo delle nascite e dell’ assimilazione forzata – sperando magari di poter giustificare la sparizione di un’etnia intera con il lavoro naturale del tempo.
Non riesco a concludere con parole ottimiste, allora vorrei lasciare parlare Gaël Faye, autore di Piccolo Paese[11], libro che parla in parte (ma non soltanto) dal genocidio dei Tutsi, citando un estratto della sua “lettera da dentro” inviata ad un amico[12]: “Non credo negli aspetti positivi della quarantena, alle virtù di questi giorni vuoti. Questa situazione soprattutto ci pone di fronte al fallimento delle nostre società e fa apparire sotto una luce intensa le nostre fragilità. Ovviamente, come tutti, prevedo “il giorno dopo” ma temo che le promesse del “mai più” non andranno più lontano dalla prossima pubblicità. Questo mese di Aprile mi fa ricordare che veniamo, tu ed io, da una Storia che spara a bruciapelo. Nella primavera 1994, i “mai più” del ventesimo secolo hanno risuonato nel vuoto mentre le nostre famiglie scomparivano dalla faccia della Terra. Era ventisei anni fa, nell’indifferenza generale. Che insegnamenti abbiamo tratto? […] Tutti i nostri ‘’Purtroppo!’’, i nostri ‘’a che serve?’’ ci preparano pazientemente alla fine del mondo. Ma possiamo anche cambiare il corso della Storia se smettiamo di dubitare del bene che possiamo fare.”[13]
[1] Fabrizio De Andrè, Disamistade.
[2] https://www.grandidizionari.it/Dizionario_Italiano/parola/E/etnocidio.aspx?query=etnocidio
[3] https://www.genocidewatch.com/single-post/2020/07/15/The-Worlds-Most-Technologically-Sophisticated-Genocide-Is-Happening-in-Xinjiang
[4] https://it.wikipedia.org/wiki/Genocidio#Genocidi_riconosciuti
[5] Dizionario francese
[6] http://preventgenocide.org/it/convenzione.htm
[7] Ancora oggi, le relazioni diplomatiche tra il Rwanda e la Francia sono molto tese e il ruolo della Francia nel genocidio ancora non è stato chiarificato.
[8] Israele ha deciso nel 2016 di mantenere sigillati gli archivi delle loro vendite di arme al Rwanda per “non nuocere alla sua sicurezza”. (https://www.timesofisrael.com/records-of-israeli-arms-sales-during-rwandan-genocide-to-remain-sealed/)
[9] Ad’eccezzione magari degli Stati Uniti, in linea con la politica straniera agressiva contro la Cina condottada Donald Trump.
[10] Traduzione personale. « Ouïghours : au Xinjiang, un lent et silencieux ‘’génocide culturel’’ », scritto da Laurence Defranoux e Valentin Cebron, 05/09/2019 🡪 https://www.liberation.fr/planete/2019/09/05/ouighours-au-xinjiang-un-lent-et-silencieux-genocide-culturel_1749543
[11] Petit Pays nel suo titolo originale. Un film adattato di questo romanzo è uscito in cinema in Francia ad agosto.
[12] « Je ne crois pas aux bons côtés du confinement, aux vertus de ces jours désemplis », Gaël Faye, « Lettres d’Intérieur », da Augustin Trapenard, France Inter, 28/04/2020 🡪 https://www.franceinter.fr/emissions/lettres-d-interieur/lettres-d-interieur-28-avril-2020
[13] Traduzione personale. Ibid.