“Alla fine andrà tutto bene. E se non andrà tutto bene, allora non sarà la fine”. Il cieco ottimismo della nota frase di John Lennon sembra riassumere perfettamente il carico emotivo dei due mesi di quarantena appena trascorsi. La diffusione del Covid-19 ed una condizione di isolamento tutt’altro che ordinaria ci hanno indotti a ripensare al nostro tradizionale rapporto con lo spazio circostante, a riformulare la nostra identità nelle relazioni affettive e professionali, con la solitudine, con il futuro. I messaggi di grande speranza e la percezione di combattere contro un “nemico comune” hanno rafforzato in noi la consapevolezza di dover diventare realmente più tolleranti e solidali. Migliori, in una parola. Che il mondo a fine quarantena sarebbe stato diverso, questo è certamente un dato di fatto. Diverso, però, non vuol dire necessariamente migliore. Volendo citare la formula del costruttivista Alexander Wendt: “il mondo è ciò che gli uomini ne fanno”; e anche se il politologo, nel 1992, parlava di Stati e di sistema internazionale, l’attualità di questa frase ci mostra quanto la storia tenda davvero a ripetere sé stessa, e l’uomo a non imparare dai propri errori.

Svariati episodi hanno ben presto rivelato quanto il sentimento di unione e solidarietà tanto decantato fosse una mera patina pubblicitaria. Sembra non si sia mai smesso di ricercare un colpevole, di fare recriminazioni, di alimentare la paura dell’altro – altro in quanto diverso o perennemente identificato in soggetti ritenuti deboli e fragili, destinatari di critiche e accuse di ogni genere. Ancora una volta il virus del pregiudizio, ben più pericoloso del temutissimo Covid-19, è riuscito a gettare solide radici in condizioni assolutamente inattese. Credo che le donne, in questo processo, siano tra le vittime principali: gli haters, specialmente sul web, ed un giornalismo cattivo, spicciolo e di parte, [1] si scatenano con gusto, spesso avvalendosi di un linguaggio che non solo facilita la discriminazione e la vittimizzazione delle donne, ma soprattutto deresponsabilizza chi ne scrive. Questo soprattutto se si parla di donne libere, coraggiose e forti, la cui colpa peggiore è proprio la consapevolezza di essere tutto ciò. Dopotutto, cosa c’è di più fastidioso di una donna che non si piega, non è accondiscendente ma, al contrario, afferma con convinzione le proprie scelte di vita? È ciò che è emerso nell’ultima edizione del Barometro dell’Odio di Amnesty International, chiamato “sessismo da tastiera”: gli utenti hanno una maggiore propensione ad attaccare le donne rispetto agli uomini, con commenti di hate speech, incitamento all’odio, superiori di 1.5 volte.[2]
A riconferma di ciò, la recente liberazione di Silvia Romano, evento che ha catalizzato livelli d’odio senza precedenti. Ad essere messo alla gogna, il presunto spirito da crocerossina della ragazza, determinata a seguire con forza il proprio obiettivo di vita, quello di aiutare i bambini in difficoltà in Kenya. Molti di coloro che hanno sempre supportato il mantra “aiutiamoli a casa loro” si sono improvvisamente coalizzati contro chi era effettivamente intenzionata ad aiutarli a casa loro, pronti a sfoggiare luoghi comuni ben peggiori, come quello del “se l’è andata a cercare”.[3] Non sono mancati commenti di matrice pornografica, su come Silvia si fosse divertita con i suoi rapitori durante i 18 mesi di prigionia, oltre che commenti circa l’abito islamico indossato al momento del suo rientro in Italia o la decisione di cambiare il proprio nome in Aisha – tra i principali punti della polemica sul suo riscatto. Un riscatto pagato per una ragazza tacciata di essere “ingrata”, una donna convertita che ha, per questo, tradito la propria Patria, al punto da essere accusata di neoterrorismo, come affermato dal Parlamentare della Lega Alessandro Pagano.[4] L’ironia della sorte vuole che, dopo un rapimento di un anno e mezzo, Silvia rischi di finire sotto scorta, e questo nel suo Paese, poichè diventata bersaglio privilegiato di una campagna d’odio e della violenza verbale dei suoi stessi connazionali. Alla base di tutto, sembrerebbe esserci come sempre una questione di genere: la tendenza, ovvero, a guardare con intolleranza e contrarietà una donna che sceglie liberamente di seguire il proprio obiettivo di vita e andare a prestare aiuto autonomamente in zone di crisi. A prova di ciò, nessun commento ha infatti accompagnato la liberazione di Luca Tacchetto, italiano rapito in Mali nel 2018, un’area tanto pericolosa quanto quella in cui si trovava Silvia. Alla conversione del ragazzo alla religione islamica e al pagamento di un riscatto per la sua liberazione non hanno fatto seguito accuse di alcun genere: l’essere uomo lo ha probabilmente esentato da certi tipi di insinuazioni.[5]
Sovranismo e sessismo sembrano essersi irrimediabilmente fusi, facendo di Silvia Romano un simbolo di anti-italianità, e ci si è appigliati a qualsiasi aspetto per portare avanti questo tipo di narrazione. C’è chi si è soffermato sulla sua giovane età o chi ancora, ossessionato dal dogma di “prima gli italiani” ha criticato la scelta di andare a fare del bene fuori dai confini nazionali.[6] La realtà dei fatti è che nel 2020, purtroppo, il binomio donna-libertà fa ancora paura, innesca una sorta di blackout nella mente di chi crede che le donne possano essere libere solo a certe condizioni tacitamente accettate: non mettere in discussione la preminenza maschile nella società. Il sessismo da rete mira ad attaccare le donne in modo personale ed esplicito, avvalendosi principalmente di stereotipi e false rappresentazioni. Commenti riguardanti anzitutto la sfera dell’aspetto esteriore e come quest’ultimo influenzi il loro ruolo pubblico, – la donna è troppo appariscente o lo è troppo poco – commenti inerenti alla sfera della sessualità, – la donna si concede troppo facilmente o non abbastanza – l’ambito della vita professionale o privata – eccessiva dedizione al lavoro piuttosto che alle questioni di presunta “reale” competenza, quelle domestiche. Si può emergere e fare carriera, certo, ma senza esagerare pensando di poter competere con la figura maschile, altrimenti diventa chiaro il ricorso a raccomandazioni sottobanco. Si può fare l’inviata all’estero ed essere una delle migliori giornaliste a livello nazionale, ma se ci si presenta in video con i capelli spettinati o il viso stanco si deve soccombere alla marea di critiche che arriveranno sull’estetica, alle infinite ironie per essere poco appetibile.[7]





La giornalista Giovanna Botteri, corrispondente Rai da Pechino, risulta da anni vittima di battute sul suo aspetto; battute tese a fare dell’ironia spicciola su una professionista nel cui lavoro, però, l’estetica c’entra ben poco. Come se l’abito o il taglio di capelli scelti potessero influenzare la capacità e qualità di informazione – le cose realmente importanti, per inciso; come se una giornalista debba necessariamente rispettare determinati canoni estetici per fare bene il proprio lavoro, per essere inattaccabile. Ecco che certe ironie, fatte nel tentativo di dimostrarsi sagaci e strappare un sorriso, finiscono semplicemente per mostrare l’assoluto maschilismo e grettezza delle menti che le hanno partorite.[8] Questo genere di insulti non è tanto distante da quelli rivolti a Carola Rackete, capitana della Sea Watch 3 che, nel giugno 2017, ha forzato il divieto di entrare nelle acque italiane per far sbarcare i migranti per portava a bordo sull’isola di Lampedusa. Anche in quella occasione, l’assoluta determinazione con cui la ragazza ha difeso la propria identità e, soprattutto, le vite umane, ha dato il via ad una spirale infinita di commenti sessisti e misogini sul suo conto: appellativi tutt’altro che carini, insinuazioni circa rapporti sessuali con i naufraghi a bordo, addirittura c’è chi le ha augurato lo stupro.[9] In via paradossale, poi, sono spesso proprio esponenti politici, ministri, alte cariche dello Stato a lasciarsi andare ad una pioggia di commenti sessisti dimostrando quanto questo tipo di linguaggio, spesso sotto forma di battute, serpeggi incontrollato. Proprio chi dovrebbe garantire e preservare la libertà e l’individualità tenta, invece, di arginarla quasi fosse un pericolo per la società.[10]
Il dato più preoccupante è che Silvia, Giovanna, Carola rappresentano soltanto i più recenti casi di un fenomeno assolutamente diffuso di cui ogni giorno fanno spesa tantissime donne forti e determinate. Si pensi alla ministra Teresa Bellanova, destinataria di commenti poco lusinghieri circa la forma fisica e l’abito scelto per il giuramento al Quirinale. Fatau Boro Lu, ex candidata europeista, è diventata oggetto di insulti razzisti e sessisti per aver osato criticare (lei, donna e con la pelle scura) le politiche di Salvini e la gestione della vicenda Sea Watch. Un’escalation di commenti razzisti e antisemiti ha toccato anche la senatrice Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz e testimone attiva della Shoah, tanto da essere messa sotto protezione di una scorta. La stessa Laura Boldrini, ex presidente della Camera dei deputati, sin dal suo insediamento, è stata oggetto di una campagna denigratoria, bufale e maldicenze sul suo conto e sulla sua famiglia.
Commenti così feroci creano un senso di tristezza e frustrazione poiché generati da ciò che queste donne rappresentano: un’immagine di solidità e fermezza. Dinanzi a donne del genere, è come se il pensiero patriarcale andasse in tilt, recependole come sbagliate, quasi contro natura. La loro esperienza, al contrario, dovrebbe costituire il punto di partenza per scardinare modelli ormai obsoleti che non hanno più ragione d’esistere. L’insegnamento è quello di trasformare la frustrazione in volontà di elevarsi, di seguire la propria strada, essere libere di esprimere se stesse. Perché c’è sempre qualcosa di fastidioso in una donna che usa il cervello, che non accetta di essere un oggetto sessuale; qualcosa che va probabilmente al di là delle semplici azioni compiute: la capacità di scegliere il proprio destino e portarlo avanti con determinazione.
Riferimenti
[1] https://www.ilriformista.it/storia-di-ilaria-capua-la-virologa-messa-alla-gogna-da-pm-e-giornali-57547/2/
[4] https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/05/13/silvia-romano-carola-rackete-giovanna-botteri-il-binomio-donna-liberta-nel-2020-fa-ancora-paura/5799514/
[7] https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/05/13/silvia-romano-carola-rackete-giovanna-botteri-il-binomio-donna-liberta-nel-2020-fa-ancora-paura/5799514/
[8] https://www.corriere.it/spettacoli/20_maggio_03/giovanna-botteri-striscia-notizia-l-ironia-corpo-delle-donne-95c3e18e-8d17-11ea-876b-8ec8c59e51b8.shtml
[9] https://www.open.online/2019/06/27/gli-auguri-di-stupro-a-carola-rackete-capitana-della-sea-watch-3/
[10] https://espresso.repubblica.it/palazzo/2014/09/11/news/insulti-alle-donne-altro-che-gaffe-del-politico-quanti-commenti-sessisti-da-sinistra-a-destra-1.179861