Migrazioni e rifugiati: le contraddizioni dell’Unione Europea

Quello delle migrazioni é uno dei grandi temi irrisolti dell’UE. L’approccio dell’Unione Europea non é sempre coerente con i suoi principi.

Il 20 giugno si è celebrata la Giornata Mondiale del Rifugiato, originariamente indetta dalle Nazioni Unite per commemorare l’approvazione della Convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo status dei rifugiati. Tra notizie di attualità e discorsi ufficiali tenuti da politici per l’occasione, mi sono casualmente imbattuta nella poesia “Nota di Geografia” di Erri De Luca, che non conoscevo ma che mi ha colpita immediatamente, soprattutto il passaggio

toccano l’Italia meno vite di quante salirono a bordo (…) eppure Italia è una parola aperta, piena d’aria”.

Poche righe ma così intense e cariche di significato da indurmi inconsciamente ad una riflessione dolce-amara sul concetto stesso di accoglienza. Viviamo in un tempo di migrazioni, laddove ogni migrazione costituisce una storia a sè, perché originata da guerre e persecuzioni, crescenti disuguaglianze sociali, dalla ricerca di un’occupazione, dai ricongiungimenti familiari, da motivi di studio e ricerca. L’uomo, per dirla con le parole dell’antropologo Giulio Angioni, è un “animale migratorio” e, in quanto tale, la propensione allo spostamento costituisce una delle principali costanti dell’umanità nei millenni, dai grandi imperi del passato alla moderna globalizzazione; è grazie al viaggio che culture geograficamente distanti hanno potuto incontrarsi, conoscersi ed incrociarsi nella loro incredibile varietà.[1] Dalla metà dell’ottocento, passando per tutto il novecento, i vissuti migratori si sono perennemente modificati e trasformati, tra progetti di breve e lungo periodo, individui singoli ed intere famiglie. Al contempo, anche le migrazioni di rifugiati e richiedenti asilo hanno assunto nuove peculiarità rispetto al periodo del secondo dopoguerra: a causa dei conflitti etnici nel continente africano, le primavere arabe del Mediterraneo, la guerra in Siria, interi popoli sono stati tragicamente costretti alla fuga, alla ricerca di una nuova casa, di salvezza, migliori condizioni di vita.[2]

Migrazioni _ coda

Sebbene protezione e accoglienza verso lo straniero parrebbero tradizione insita, non solo nel nostro essere umani, ma nella nostra stessa civiltà europea e mediterranea, la triste percezione, perennemente confermata dalle notizie di cronaca, è che l’Europa stia progressivamente perdendo memoria del proprio passato di grandi migrazioni oltreoceano.[3] Molte misure adottate dai paesi dell’Unione Europea negli ultimi anni sono state concepite seguendo la scia di informazioni tendenziose che presentano il migrante come pericolo, potenziale criminale, persona da respingere; misure favorite sia da debolezze legislative, sia da accordi internazionali che concedono silenziosamente la gestione dei flussi migratori a dittature come la Turchia o a regimi militari come la Libia. La “crisi migratoria” – come è stata definita – che ha interessato il continente europeo negli ultimi anni, ha messo in evidenza le difficoltà e contraddizioni della stessa Unione nell’adozione di misure univoche tra gli stati membri. Soprattutto, secondo me, ci porta a riflettere e riconsiderare il concetto stesso di “frontiera”, inteso non più unicamente come confine territoriale ma, in senso più ampio, come netta separazione tra “noi” e “loro”, come limite verso la costruzione di società realmente inclusive. Esiste un equilibrio tra la solidarietà umana e l’obbligo che gli stati hanno di proteggere le proprie frontiere? Dinanzi alle immani sofferenze e alla fatica di chi intraprende un percorso migratorio del genere, esiste un dovere per gli stati di accogliere?[4]

Per un verso, è indubbio considerare la Giornata Mondiale del Rifugiato una conquista, risultato della capacità e della forza collettiva di tutte le persone costrette ad abbandonare la propria terra. Un atto, questo, che richiede un coraggio straordinario ed immani sacrifici, la capacità di affrontare il proprio destino è una caratteristica dei più coraggiosi. Il merito della sopracitata Convenzione di Ginevra, basata sul principio del non-refoulement,[5] è stato proprio la creazione di un approccio internazionale comune per un istituto precedentemente regolato a livello statale. Seguendo questa scia, vi era forte aspettativa che anche la nascente UE svolgesse un ruolo proattivo in materia di accoglienza e diritto d’asilo: l’idea che uno spazio libero e senza frontiere interne si avvalesse di un approccio unico in materia ha, nel lungo periodo, portato all’introduzione di standard comuni per ogni ambito della procedura di richiesta, valutazione ed emissione del diritto di asilo, oltre che di accoglienza, integrazione, trattamento e gestione dei migranti per motivi politici. Al momento dell’attribuzione all’Unione della competenza in tema di asilo politico, gli Stati membri risultavano però già vincolati da obblighi derivanti dal diritto internazionale e presentavano notevoli divergenze in tema sul piano nazionale. Se per un verso, dunque, il diritto europeo ha consentito la codificazione di un corpus normativo già operante, ha contemporaneamente acuito le diversità interne ai singoli Paesi. In termini normativi, l’UE ha compiuto progressi evidenti: ispirandosi al principio chiave della leale cooperazione, ha cercato di fornire gli Stati membri un insieme comune di strumenti per far fronte alle proprie necessità quotidiane ed operative (introduzione di una procedura unica di esame delle domande, database comune di informazioni su tutti i paesi di provenienza dei richiedenti asilo, creazione di una modalità unica comune per affrontare specifici problemi di accoglienza)[6].

Tuttavia, non è il contesto normativo quello su cui voglio concentrarmi in questa sede; ritengo, infatti, che spesso non offra una chiave di lettura esaustiva in tema di rifugiati e asilo politico. Guardando oltre trattati e dichiarazioni internazionali, ci si rende conto di come la risposta europea si sia spesso dimostrata inadeguata, reagendo all’aumento dei flussi migratori con una dialettica principalmente legata ai concetti di paura e sicurezza. Le nozioni di asilo o rifugiato si sono allontanate sempre più dagli ideali di solidarietà e accoglienza, avvicinandosi, al contrario, a quello della tutela personale. L’approccio prevalente, cioè quello di limitare gli arrivi, dimostra come un ambito che dovrebbe essere dominato solo da scelte compiute per motivi umanitari ed etici sia diventato appannaggio della politica e di pratiche migratorie sbagliate che violano perennemente i diritti umani portando alla morte di migliaia di persone. Nel tentativo di regolare e ridurre la presenza di stranieri nel proprio territorio, i singoli stati si sono orientati sempre più verso una riduzione degli standard legislativi europei a favore di proprie leggi nazionali, spesso ben più restrittive[7] – le procedure nazionali, infatti, variano anche a seconda dei paesi di provenienza dei rifugiati e dal rapporto che hanno con il territorio ospitante (la Svezia, ad esempio, accoglie l’80% dei rifugiati iracheni mentre la Gran Bretagna, ai tempi dell’Unione, solo il 13%)[8]. L’incapacità di definire misure coerenti e coordinate, ha indotto i governi nazionali a rilanciare la cooperazione con i Paesi di origine e transito per il contenimento dei flussi: l’apripista di questa nuova strategia è stata la Turchia[9], divenuto il Paese chiave per contenere l’esodo dei cittadini siriani verso le isole greche. La riduzione significativa degli arrivi lo ha reso modello di riferimento per le relazioni con i Paesi di origine e di transito della rotta del Mediterraneo centrale, in particolare con il Niger e con la Libia.[10] Anche in merito al lavoro delle ONG, l’approccio prevalente sembra essere quello di limitare il loro operato piuttosto che considerarle una risorsa cui fare riferimento. Sebbene nel settembre 2020 la Commissione Europea avesse chiesto agli Stati membri maggiore coordinamento e supporto in tema, le attività di soccorso e ricerca hanno continuato ad essere ostacolate da procedimenti amministrativi o penali, da attività di ostruzionismo tali da impedire le operazioni di soccorso; non sono state dispiegate navi aggiuntive o risorse specificamente destinate ad attività di soccorso lungo le principali rotte migratorie. La diffusione della pandemia e le conseguenti misure restrittive hanno ulteriormente bloccato, se non annullato, il dispiegamento di navi.[11] La situazione generale rimane di grande allarme oltre che estremamente condannabile: solo nel 2020, sono state registrate oltre 2600 morti sulla rotta del Mediterraneo centrale: il progressivo ritiro delle navi dal Mediterraneo, i crescenti ostacoli alle attività di soccorso delle ONG, le decisioni di ritardare lo sbarco, la mancata assegnazione di porti sicuri hanno chiaramente messo in discussione l’integrità ed efficacia del sistema di soccorso.

Rifugiati non sono il problema

Stiamo assistendo, per citare Don Luigi Ciotti, ad una vera e propria emorragia di umanità, azioni deplorevoli con cui l’Europa – culla dei diritti umani e della democrazia – dovrà un giorno fare i conti.[12] L’imperativo europeo, nell’assoluto immediato, deve essere quello di proteggere le persone in stato di necessità, avvalendosi di un corpus di misure e politiche coerenti come utile strumento per assolvere ai propri obblighi internazionali e doveri etici. Solo lavorando nel rispetto dei principi di solidarietà e responsabilità condivisa, l’Unione potrà continuare a rappresentare un solido rifugio per chi teme le persecuzioni ed una meta attraente per talento e intraprendenza di lavoratori, studenti e ricercatori.[13] Affinchè l’esercizio di questa responsabilità internazionale sia effettivo, è anzitutto essenziale modificare la dialettica attraverso cui leggiamo il mondo: l’immigrato non è il nemico, bensì la vittima. Se è vero che le migrazioni sono sempre esistite nella storia umana, è anche vero che i picchi che si sono verificati negli ultimi anni sono stati responsabilità di un sistema politico ed economico che ha generato laceranti disuguaglianze, sfruttamento di intere regioni del pianeta, guerre per l’appropriazione esclusiva di materie prime, costringendo, in conseguenza, milioni di persone alla fuga. Ciò che deve essere contenuto è la logica del profitto tacitamente sottesa ad un sistema economico e politico profondamente ingiusto. Le migrazioni forzate indotte da deterioramento ambientale, estrazione di risorse locali, effetti devastanti del riscaldamento globale, costituiscono forme evidenti di violazioni dei diritti umani e centralizzazione del potere. Aspetti, questi, non solo strettamente correlati tra loro ma promotori di  un modello di sviluppo che infrange e viola pericolosamente i limiti ecologici del pianeta oltre che quelli umani e di giustizia sociale.[14] Si consideri, ad esempio, il fenomeno tristemente noto come water grabbing, attraverso cui potenti attori economici e politici controllano o deviano a proprio vantaggio risorse idriche preziose, sottraendole a comunità locali o intere nazioni la cui sussistenza si basa proprio su quegli stessi ecosistemi depredati; attualmente, 1 miliardo di persone non ha accesso all’acqua potabile nel mondo, mentre il 70% delle terre emerse è oggi a rischio desertificazione. Ugualmente importante è l’impatto dell’industria agroalimentare in termini di sfruttamento di risorse idriche e sottrazione di terreni a danno delle piccole coltivazioni. I conflitti per risorse naturali e minerali preziosi in Repubblica Centro Africana, Repubblica Democratica del Congo o per il petrolio in Nigeria e Sud Sudan sono responsabili delle più consistenti ondate migratorie nella regione.[15]

A fare le spese di questi rapporti di potere subalterni e dei conseguenti danni arrecati all’ecosistema, sono chiaramente le popolazioni più povere, la cui sopravvivenza, più strettamente connessa ai servizi gratuiti della natura, risulta maggiormente esposta a vulnerabilità, privazioni e disuguaglianza. Questa logica mostra lucidamente quanto le principali crisi strutturali dell’epoca moderna, migrazione in prima linea, siano prodotto storico di rapporti di produzione, consumo e potere altamente iniqui e scorretti; dinamiche a cui gli stati reagiscono avvalendosi di politiche interpretabili principalmente come risposta a posteriori e non preventiva, che facilitano solo una guerra inumana contro chi fugge da guerre o condizioni di vita inaccettabili. Muri, fili spinati, le frontiere fortificate non solo sono estremamente disumane, ma soprattutto inutili: ciò che è opportuno fare è pensare e analizzare le migrazioni in un’ottica globale, riducendo realmente disuguaglianze ed ingiustizie, squilibri sociali e climatici, fare in modo che ogni persona, ad ogni latitudine e parte del globo, possa vivere una vita libera e dignitosa.

Antonella Iavazzo

Riferimenti

[1] https://www.iltascabile.com/societa/viaggio-migrante/

[2] https://legale.savethechildren.it/diritti-oltre-frontiera-riflessioni-tema-migrazioni-accoglienza-integrazione-stati-nazionali-unione-europea/

[3] https://rm.coe.int/una-richiesta-di-aiuto-per-i-diritti-umani-il-crescente-divario-nella-/1680a1dd0f

[4] https://legale.savethechildren.it/diritti-oltre-frontiera-riflessioni-tema-migrazioni-accoglienza-integrazione-stati-nazionali-unione-europea/

[5] Principio del “non respingimento”: ai sensi dell’art.33, ad un rifugiato non può essere impedito l’ingresso sul territorio né può esso essere deportato, espulso o trasferito verso territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate

[6] https://www.assemblea.emr.it/europedirect/pace-e-diritti/archivio/i-diritti-umani-e-leuropa/2008/diritto-dasilo-come-funziona-nellue

[7] Si consideri il pacchetto di provvedimenti “Asylpaket” introdotto in Germania nel 2015 e responsabile di un peggioramento della condizione dei richiedenti asilo a livello nazionale: paesi come Albania, Montenegro e Kosovo sono stati inclusi nella lista dei “paesi sicuri”, con conseguente impossibilità di richiedere protezione internazionale per chi ne provenisse; sono state introdotte limitazioni ai trasferimenti monetari diretti a richiedenti asilo ed ulteriormente ridotti gli spazi destinati all’accoglienza. Ancora, nel 2019, anche la Francia ha esercitato una stretta importante sull’assistenza sanitaria offerta a rifugiati e richiedenti asilo, imponendo restrizioni ulteriori sul rinnovo visti e lo sgombero di campi migranti a Parigi.

[8] Ibid.

[9] La Turchia si è impegnata a garantire accoglienza e protezione a circa tre milioni di cittadini siriani, in cambio di ingenti finanziamenti da parte dell’UE degli Stati membri e dello sblocco dei negoziati sull’accordo per la liberalizzazione dei visti a favore dei cittadini turchi.

[10] Secondo i dati dell’OIM (organizzazione internazionale per le migrazioni), nel periodo 2019-2020 sono avvenuti più di 20.000 rimpatri in Libia nonostante l’evidenza innegabile di violazioni di diritti umani e assenza di garanzie in tema e trasparenza e responsabilità

[11] http://documenti.camera.it/leg18/dossier/pdf/AT029.pdf

[12] https://www.libera.it/schede-666-immigrati_e_accoglienza_non_e_questione_di_sicurezza_o_di_ordine_pubblico

[13]https://unipd-centrodirittiumani.it/it/schede/I-presupposti-per-la-creazione-del-Sistema-Comune-Europeo-di-Asilo/237#:~:text=Sebbene%20i%20trattati%20sull’Unione,28%2D38).

[14]https://www.canaleenergia.com/rubriche/scenari-dati-di-mercato-indagini-del-settoredossier-e-report/nellera-del-capitalocene-le-migrazioni-sono-frutto-del-cambiamento-climatico-di-origine-antropica/

[15] Ibid.

L’Erasmus per un non-europeo: tra l’assurdo e l’esistenziale

Sono le 5 di mattina e ho circa 15 minuti per uscire dalla mia stanza. Il mio visto ceco da studente è ormai in scadenza, devo lasciare la Francia e rientrare per farmelo prolungare. In Francia, da quando c’è il Covid, i mezzi pubblici che fanno tratte extraurbane sono pochi e non frequenti. Per arrivare in tempo a Francoforte per il volo delle 18:10, devo prendere il treno delle 6:30 che va da Grenoble a Lione. Con i bus non va meglio, nei weekend non passano proprio. Arrivato a Francoforte dovrò volare fino a Vienna e prendere il treno che, finalmente, mi porterà alla mia università a  Brno, in Repubblica Ceca.

Tutto si è complicato due settimane prima del volo che avevo prenotato inizialmente, perché per rientrare in Rep. Ceca è stato introdotto l’obbligo di quarantena per i chi arrivava dalla Francia. Ho dovuto cambiare tutto il programma per far in modo di riuscire a concludere la quarantena prima dell’appuntamento al ministero degli esteri. Un viaggio che normalmente dura due ore in aereo è diventato un viaggio di 30 ore, organizzato in fretta e furia. Nel bel mezzo del mio Erasmus in Francia mi sono trovato a dover tornare a Brno per richiedere un’estensione del visto che mi aveva permesso di stare in Europa. A metà di una nuova esperienza, sradicato da quella che era ormai una nuova casa, mi trovo a essere di nuovo senza radici. Questo è l’Erasmus per uno studente originario di un Paese non europeo.

Anche se si tratta solamente di un semestre, il disorientamento che si vive è reale. Già soltanto raccogliere tutti i documenti necessari, le assicurazioni, i permessi, prepararsi per l’Erasmus e trasferirsi in una nuova città è abbastanza complicato. Poi considerate tutte le restrizioni dovute al Covid sia nel Paese di partenza che in quello di arrivo, senza dimenticare tutte le problematiche dovute all’essere un cittadino non europeo che prova a esercitare i propri diritti di studente europeo. Si finisce a trascorrere molto tempo bloccati davanti a un computer, con 20 schede aperte nel browser a cercare di capire quali documenti servono e dove devono essere consegnati. Questo insieme di circostanze completamente nuove mi ha portato a una certa indolenza verso i regolamenti in rapida e continua evoluzione. La capacità richiesta per immagazzinare tutte queste informazioni è un po’ come quella che servirebbe per riuscire a bere da un idrante.

Arrivo all’aeroporto alle 7:20. Un’ora esatta prima che aprano i siti per effettuare i test Covid. Solo ora mi accorgo che nella fretta ho gettato via insieme al resto della spazzatura il cibo che mi ero preparato la notte scorsa. Mi sento affamato, stanco e mancano ancora almeno 10 ore prima di poter davvero pensare che il viaggio stia iniziando. Finisco nella coda per i test covid, già consapevole che dovrò sottopormi a due test. Un test rapido antigenico per poter prendere il volo da Francoforte e un PCR obbligatorio per poter entrare in Repubblica Ceca il giorno dopo.

Dopo aver avuto i risultati mi avvio verso il gate per l’imbarco e mi avvicino alla cabina di controllo della frontiera. Mostro il passaporto e l’esito del test. L’agente mi riconsegna i risultati, apre il passaporto e mi chiede cosa faccia in Francia. Gli dico che sono lì per studiare. L’agente però sottolinea che il visto per motivi di studio che ho è ceco e non francese. In tutto questo mi rendo conto che lui mi stava parlando in francese e io stavo puntualmente rispondendo in inglese. Cerco di spiegargli che sono in Erasmus. Ci sono voluti diversi tentativi, tra i quali uno sicuramente azzardato in cui ho provato a pronunciare “Erasmus” con l’accento più francese che potessi fare, ma alla fine ha capito. Appena mi ero convinto di avercela fatta, l’agente torna mostrandomi la parte frontale del passaporto e mi chiede come potessi essere in Erasmus se non sono un cittadino europeo. Mi viene da pensare a tutti gli altri cittadini non europei che sono andati in Erasmus prima di me e mi chiedo se tutti hanno vissuto esperienze simili alla mia. Dovremmo considerarci fortunati a non essere fermati e a non dover spiegare ogni volta la situazione? O apparteniamo a una categoria invisibile?

Non sono arrivato in aeroporto con mezza giornata di anticipo per essere rispedito a casa. Già venendo dalle Filippine ero finito in mezzo a un mare di insensata burocrazia. Fare un Erasmus da cittadino non europeo non è molto diverso. Ti prepari a tutto, anche se non ti è richiesto così tanto, perché non ti senti mai del tutto a tuo agio a sostenere che hai pieno diritto di stare e di muoverti liberamente in Europa. Stampi con attenzione tutti i documenti possibili e immaginabili anche se i tuoi coetanei europei non hanno altro che i loro telefoni con se. Trenta minuti, altri due addetti ai controlli, un carico immane di documenti cartacei, una lunga serie di chiamate ai propri superiori e alla fine mi hanno lasciato passare. Una procedura insensatamente complessa e macchinosa. Mi viene da sorridere, vago con la mente e mi accorgo di essere in un’assurda situazione kafkiana.

Finalmente, passati i controlli di frontiera, ho un attimo per riflettere su tutte le cose che sono successe. Mi ritorna in mente Kafka e la sua Metamorfosi. Immagino come sarebbe se fosse scritta oggi. Se Gregor Samsa si fosse svegliato in una nottata tormentata nel 2021 e si fosse trovato nel suo letto, trasformato in un insetto gigante, se ne sarebbe accorto qualcuno? Sottomessi e abbattuti dalla lunga durata della pandemia come siamo, ci sarebbe davvero importato? Nel mezzo della mia quarantena obbligatoria non mi sarebbe dispiaciuto se mi fossero spuntate altre zampe e altri piedi. Immagino sia solo per sentire qualcosa. Poi avrebbe certamente aiutato in tutte le camminate intorno alla stanza per sfogare questa ansia. Oppure, più realisticamente, Gregor avrebbe continuato con a vivere con questa tipica fatica esistenziale che viviamo, partecipando alle chiamate su zoom con il microfono spento e la camera disattivata, senza che i colleghi se ne accorgessero.
Cosa è assurdo dipende dal contesto. 

Prendo il volo e atterro a Francoforte, dove mi ritrovo a partecipare a un meeting virtuale e a fare due esami nelle 15 ore di permanenza in città. Da lì volo fino a Vienna e arrivo ad un aeroporto dove non c’è alcun controllo di frontiera. Mi trovo nell’assurdità di essere obbligato a fare due test covid lo stesso giorno senza, poi, dover mai mostrarne i risultati. E’ esasperante e ansiogeno. Non riesco a pensare a definizione più accurata del concetto di angoscia di Kierkegaard, è davvero “la vertigine della libertà”[1]. Il fatto che mi abbiano detto di dover mostrare il risultato negativo del test covid all’arrivo e il non aver incontrato nessuna autorità alla quale mostrarlo, mi fa sentire talmente abbandonato a me stesso che solo le persone che hanno vissuto una situazione simile possono comprendere. Questa vertigine mi ha accompagnato anche quando ho attraversato il confine per arrivare a Brno, dove nuovamente non c’è stato nessun controllo alla frontiera.

Tornando a Brno mi sono sentito uno straniero nel posto che avevo chiamato casa per i due anni precedenti. Sono stato via solo tre mesi, mi sento strano a definirmi straniero. Fa un effetto ancora più strano ricordare che effettivamente sono uno straniero. Un cittadino di un paese extra-europeo che ha avuto le stesse opportunità di uno studente europeo. Sono fortunato ad aver potuto partecipare a questo semestre Erasmus. Vedete, le definizioni di casa e identità sono messe a dura prova quando si va in Erasmus. Inevitabilmente i luoghi dove andiamo entrano a far parte di noi in qualche modo. Ci vediamo in un certo modo a seconda di dove ci troviamo. In questo si riassume tutto: l’Erasmus è un esercizio di pensiero esistenzialista. Una conversazione tra noi stessi e la società su ciò che ci rende noi stessi, sui valori che sosteniamo e sul tipo di bene per il quale vogliamo batterci.

Quindi, quando ci viene chiesto com’è l’Erasmus cosa dovremmo rispondere? Dovremmo dare una risposta in base ai corsi frequentati e ai crediti conseguiti? Sulle relazioni costruite e su quelle rovinate? Definendo l’essenza di una cosa, Husserl sostiene che è fondamentale ciò che è necessario e invariabile nel suo essere.[2] Le caratteristiche del programma sono definite in maniera specifica e dettagliata ma non c’è nulla che faccia comprendere in anticipo ciò che si riceve prendendo parte ad esso, al di là dei voti che ognuno si aspetta di ottenere. E dunque, anche se si ha una definizione non si ha un significato. Almeno non un significato che sia predeterminato in partenza. Ciò che è necessario e invariabile nella propria esperienza Erasmus è il proprio coinvolgimento. L’Erasmus, come la vita, è ciò che si fa di esso.

Per me, l’Erasmus è stato un’opportunità per guardare dentro l’abisso – nell’incertezza sull’avvenire. L’opportunità di scavare in tutte le convinzioni che ho costruito nel tempo, contro l’integrazione e la globalizzazione come manifesti. L’assenza di significato non è una prognosi cupa ma è più un invito a sfruttare quella che è senza dubbio una grande occasione di crescita personale. Un capitolo a cui guardare indietro, nella speranza di poter dire che ci ha resi più risoluti nel fare del bene per il mondo e per le persone intorno a noi. L’Erasmus è un’occasione per vivere in modo autentico, nel senso esistenzialistico del termine, accettando il peso della consapevolezza che la propria esperienza dipenderà da come si utilizzerà la libertà che l’Erasmus stesso ci concede. Si arriva all’università pronti a imparare e mettere alla prova le nostre convinzioni. L’Erasmus prende queste premesse e le esalta.

Un mese dopo, una volta sistemata la questione con il permesso di soggiorno, posso finalmente salire sul volo di ritorno per la Francia dove trascorrerò l’ultima parte del semestre. Questo viaggio è molto meno complicato del precedente. Ora riesco finalmente a rientrare nella mia stanza, mi sento stanco e ho ancora le vertigini per questa libertà che sento dentro. Cerco di orientarmi e spingo con tutti i piedi che ho sul pavimento.

L’esperienza Erasmus ci fornisce una quantità senza precedenti di responsabilità. La nostra esperienza è come noi vogliamo che sia e finisce per essere solamente nostra. Come scrive Camus: “siamo tutti casi eccezionali”[3]; l’Erasmus ci dà le redini per rendere i nostri casi eccezionali.  

Jerry Yao

tradotto dall’inglese da Michele Corio

[1] Il concetto di angoscia – S.Kierkegaard

[2] Ricerche logiche – E.Husserl

[3] La caduta – A.Camus

Le transizioni gemelle e i loro rischi

Le transizioni gemelle (verde e digitale) avranno un forte impatto sul mondo. Il cambiamento sarà positivo per tutti? Ci sono rischi? Quali?

Un esempio dal recente passato

La liberalizzazione del commercio degli ultimi 30 anni ha impoverito intere fette di popolazione nei paesi avanzati. Mentre ci si continuava a ripetere di quanto giusto fosse abbassare dazi e barriere doganali per aprirsi al mondo intero, si è sottovalutato l’impatto che questo avrebbe avuto sui diretti interessati. Autorn, Dorn e Hanson – per esempio – hanno analizzato i programmi di aiuto governativi nelle aree degli Stati Uniti più colpite dal commercio con la Cina. Il loro studio indica che anche se le persone nelle zone affette hanno ricevuto dei sussidi, questi non sono stati sufficienti a coprire la perdita di reddito. Gli autori stimano una perdita annua per ogni adulto di $549, contro sussidi governativi di appena $58[1][2].  Inoltre, è chiaro come degli aiuti puramente economici non possano realmente sopperire alle difficoltà umane e psicologiche causate dalla perdita del lavoro, specialmente in età avanzata.

Un discorso diverso è da farsi per i paesi in via di sviluppo, molti dei quali hanno ampiamente beneficiato della globalizzazione. Paesi come Messico, Cina, Colombia, india e Argentina si sono arricchiti moltissimo negli ultimi trent’anni. Nonostante la porzione di popolazione in stato di estrema povertà di questi paesi sia diminuita, le disuguaglianze sono invece cresciute, ad indicare che questa nuova ricchezza non è stata distribuita in maniera omogenea. Alcuni economisti (tra cui i due neo premi Nobel Banerjee e Duflo) sospettano esserci un nesso causale tra la crescita delle disuguaglianze in questi paesi e le relative politiche di liberalizzazione del commercio[3][4].

I dazi doganali non possono però essere la soluzione: la maggior parte delle catene di produzione al giorno d’oggi sono internazionali, introdurre dazi ha ripercussioni sul costo dei materiali utilizzati dalle aziende. E d’altro canto, cercare di imporre a livello governativo un’ agenda di sviluppo industriale basata su canoni vecchi ha un effetto negativo su produttività e prodotto interno lordo. Infine, dove sono state imposte nuove tariffe si è verificato un aumento dei prezzi anche di quei beni che vengono importati finiti, con un conseguente impatto negativo sul potere d’acquisto dei cittadini[5].

Il commercio internazionale ha aiutato la crescita globale, contribuendo ad un aumento del tenore di vita di molti cittadini nei paesi in via di sviluppo e incrementando il potere di acquisto di quelli nei paesi avanzati (specialmente nei paesi piccoli). Non si possono però trascurare le sofferenze di chi ha risentito in prima persona della transizione da certi tipi di attività economica (come la lavorazione dell’acciaio o di fibre tessili) ad altri (per esempio la consulenza aziendale e quella finanziaria). Ignorare il dramma di queste sacche di popolazione – spesso raggruppate nelle aree dei vecchi poli produttivi – secondo molti è stata la vera causa dietro la radicalizzazione dell’elettorato che ha portato a fenomeni come Trump e la Brexit.

Imparare dai propri errori

Oggi è importante non fare lo stesso errore con i pacchetti di rilancio dell’economia nei paesi avanzati. E’ fondamentale metterli in atto, così come trent’anni fa era giusto aprirsi al commercio. Questa volta però bisogna assicurarsi di non lasciare indietro nessuno, o il malcontento non potrà che aumentare. Ecco perché diviene importante pensare in questi termini alle transizioni gemelle – verde e digitale – promosse dalla Commissione UE. Questi cambiamenti sono già in atto e saranno accelerati dai €750 miliardi di Next Generation EU. Come tutte le rivoluzioni anche questa comporterà cambiamenti epocali che inevitabilmente avranno vinti e vincitori.

Qui di seguito riporto una traduzione – con qualche aggiunta – di pagina 6 del report dello European Policy Centre “National Recovery and Resilience Plans: Empowering the green and digital transitions?”, scritto da Marta Pilati e che potete trovare qui.

Nonostante ci sia un obiettivo comune per queste trasformazioni – raggiungere una società sostenibile e inclusiva – la portata del cambiamento richiesto non è la stessa per tutte le persone coinvolte. Per avere successo, le transizioni sostenibili e digitali richiedono adattamenti nei processi produttivi, nella pubblica amministrazione e servizi, l’istruzione, il mercato del lavoro, la base di competenze, il mix energetico e delle infrastrutture, e altro ancora. C’è una grande eterogeneità in tutta l’UE per quanto riguarda questi settori, il che implica che la trasformazione verso gli obiettivi comuni richiede sforzi diversi e su misura.

Da una prospettiva geografica, le regioni dell’UE che sono meno sviluppate e/o sottoperformanti economicamente sono anche meno attrezzate per impegnarsi con successo nelle due transizioni. Un recente studio dell’European Policy Centre [5] sottolinea i seguenti punti:

 – Mentre ci si aspetta che le transizioni gemelle creino nuovi posti di lavoro, sorge un problema se i posti di lavoro creati e persi non si trovano nella stessa area e non appartengono agli stessi lavoratori. Questo è il caso per le regioni il cui mercato del lavoro è fortemente dipendente da industrie ad alta intensità energetica (per esempio l’estrazione e il trattamento di combustibili fossili). E’ fondamentale non commettere lo stesso errore del passato – ipotizzando una grande mobilità della forza lavoro – mentre sarà fondamentale investire in una riorganizzazione e  riqualificazione delle persone colpite, così da evitare nuova disoccupazione localizzata. In questa cornice rientra lo strumento React EU[6].

– Tutti i settori economici richiederanno più (e nuovi) profili di lavoro qualificati con maggiore intensità di conoscenza e tecnologia. Le aree in cui la base di competenze è meno avanzata, e/o c’è meno capacità di sostenere la formazione sul lavoro, avranno meno successo nel portare a termine le transizioni rapidamente. Questo potrebbe avere effetti negativi sulla loro competitività e prosperità a lungo termine.

– Per usufruire dei benefici della transizione digitale e del miglioramento della connettività, l’infrastruttura rimane cruciale. Il “divario digitale” tra le regioni dell’UE è preoccupante, poiché la mancanza di un’adeguata infrastruttura digitale può escludere intere aree da attività ad alto valore aggiunto. Inoltre questo coinvolgerebbe le aziende già presenti sul territorio, che potrebbero trasferirsi altrove e quindi portare al declino economico. Allo stesso modo, i cittadini di alcune aree potrebbero vedersi esclusi dall’utilizzo dei servizi pubblici digitali. Per questo la Commissione ha chiesto di mettere l’infrastruttura digitale al centro dei piani di ripresa e resilienza.

Copyright ©️ Bruegel 2015: European Union countries’ recovery and resilience plan
Copyright ©️ Bruegel 2015: European Union countries’ recovery and resilience plan

Alcuni potenziali effetti sociali delle transizioni gemelle degni di nota sono elencati di seguito.

– L’impatto del cambiamento tecnologico sul mercato del lavoro. Per esempio, sono emerse nuove forme di lavoro legate direttamente alla digitalizzazione, in particolare il lavoro su piattaforma. I sistemi di protezione sociale non sono sempre in grado di adattarsi a questi sviluppi del lavoro, con conseguenti lacune nella protezione.[7]

– Il rischio occupazionale dell’automazione. Un lavoro a basso reddito su cinque è a rischio di automazione. Questo diventa uno su sei per i lavori a medio reddito e solo uno su dieci per i lavori ad alto reddito.[8] L’interruzione del lavoro causata dall’automazione rappresenta una preoccupazione reale di maggiore disuguaglianza e nuova instabilità.

– La relazione simbiotica tra esclusione sociale ed esclusione digitale. I gruppi vulnerabili e socialmente esclusi usano internet e gli strumenti tecnologici meno del resto della popolazione, perché tendono ad avere meno competenze e accesso al digitale. Questa esclusione digitale impedisce anche di cogliere i benefici delle nuove tecnologie, portando, per esempio, a scarsi risultati scolastici. Questo potrebbe esacerbare ulteriormente la loro esclusione sociale.[9]

– La vulnerabilità dei gruppi a basso reddito all’aumento dei prezzi. Se la transizione ecologica porta a un aumento dei prezzi dell’energia o della mobilità prezzi dell’energia o della mobilità, questo sarà problematico per i gruppi a basso reddito (almeno nel breve periodo) e colpirà i poveri in modo sproporzionato.[10]

– La dimensione di genere della transizione digitale. Come le competenze e occupazioni STEM (cioè scientifiche, tecnologiche, ingegneristiche, matematiche) diventano più importanti e richieste nel mercato del lavoro, c’è il rischio che le donne siano lasciate fuori dai guadagni e che il divario di genere aumenti, in quanto esse tendono ad essere meno presenti in questi settori.

Sottolineare questi rischi di disuguaglianza non significa assolutamente sminuire la necessità delle transizioni gemelle. Piuttosto, è per assicurarsi che le transizioni abbiano successo e siano eque. Le transizioni possono portare ad un’economia digitale e sostenibile e una società più coesa, a patto che i loro benefici raggiungano i più vulnerabili. Per esempio, la digitalizzazione e il telelavoro possono portare posti di lavoro e attività economiche in aree dove non è fisicamente fattibile. Accelerare le trasformazioni strutturali senza una strategia per prevenire effetti distorsivi e che controbilanci i costi condanna lo sforzo al fallimento. Si riconosce sempre più che la coesione sociale e territoriale dell’Europa deve essere protetta.

Marta Pilati

Giovanni Sgaravatti

Referimenti

[1] Abhijit V. Banerjee & Esther Duflo (2019), Chapter 3, “Good Economics for Hard Times”.

[2] Autorn, Dorn, Hanson, American Economic Review (2013) “The China Syndrome: Local Labor Market Effects of Import Competition in the United States”

[3]Autorn, Dorn, Hanson, American Economic Review (2013) “The China Syndrome: Local Labor Market Effects of Import Competition in the United States”

[4] Goldberg, Pavcnik (2007), Distributional Effects of Globalization in Developing Countries, American Economic Association

[5] John K. Ferraro and Eva Van Leemput (2019) Long-Run Effects on Chinese GDP from U.S.-China Tariff Hikes, Federal Reserve

[6] Pilati, Marta and Alison Hunter (2020), EU lagging regions: state of play and future challenges“, Brussels: European Parliament.

[7] La quota del react eu dovrebbe essere diretta proprio a contenere squilibri territoriali e a supportare le aree più in difficoltà. REACT-EU – Regional Policy – European Commission

[8] OECD (2019), “Under Pressure: The Squeezed Middle Class”, Paris: OECD Publishing.

[9] Martin, Chris et al. (2016), “The role of digital exclusion in social exclusion”, CarnegieUK Trust.

[10] López Piqueres, Sofia and Sara Viitanen (2020), “On the road to sustainable mobility: How to ensure a just transition?”, Brussels: European Policy Centre.

Plurilinguismo: come arricchisce la nostra identità?

Fin dai banchi di scuola, durante l’ora di inglese, francese o spagnolo, siamo abituati a sentirci dire come il plurilinguismo ci permetta di aprirci molto meglio al mondo e alle sue opportunità. Non è certo una novità degli ultimi decenni: il celebre poeta e drammaturgo tedesco Goethe scriveva addirittura già nel 1821 che «Colui che non sa le lingue straniere, non sa nulla della propria»[1].

Aforismi a parte, però, nella nostra vita di tutti i giorni, imparare altre lingue ci rende effettivamente persone diverse? La nostra identità, ovvero il modo in cui ci vediamo e ci raccontiamo, risente delle nostre esperienze con le altre lingue?

Per osservare come le lingue intervengano ad ampliare l’identità personale, occorre innanzitutto presentare alcuni studi socio-psicologici sulla costruzione dell’identità, per poi passare all’influsso del plurilinguismo sulle concezioni di sé degli individui.

plurilinguismo e identitá
Erik Erikson e George Mead

Studi sull’identità e plurilinguismo

Sebbene la parola identitas esistesse già nel tardo latino[2], l’identità nella sua accezione contemporanea è stata studiata soltanto a partire dalla metà del Novecento. Tra i primi studiosi, il ricercatore tedesco-americano Erik Erikson ha concluso come la nostra identità più intima (da lui chiamata «ego identity») nasca da un tentativo di trovare continuità e coerenza nella nostra vita[3]. Ci creiamo, ovvero, un’identità per saperci definire, per poter rispondere alla fatidica domanda: «Chi sono io?».

Un altro studioso, invece, di nome George Mead ha osservato come nel corso del nostro sviluppo, soprattutto durante e dopo l’infanzia, comunicare e relazionarci con gli altri costituiscano le basi per sviluppare la nostra identità personale[4]. In tenera età, infatti, attraverso il gioco con gli altri bambini avvengono i primi confronti con l’altro: per mezzo dei giochi di ruolo (per esempio: madre, poliziotta, maestro) i piccini sperimentano una serie di ruoli sociali che, nel tempo, saranno loro d’aiuto per costruire una propria idea di sé[5]. Giocare, dunque, secondo Mead, è un passo necessario per capire noi stessi.

Tuttavia, sia il gioco che il dialogo non possono avvenire senza comunicazione: la lingua è uno strumento inevitabile d’interazione e per questo fondamentale alla costruzione della nostra identità.

Se è vero che senza lingua risulta difficile comunicare, l’uso della lingua si rivela altrettanto necessario per descriverci e raccontarci agli altri. A tal proposito, l’atto del narrare di sé è stato meticolosamente osservato dal socio-psicologo tedesco Heiner Keupp (e da un folto team di altri interessati) nel 1999, il quale ha paragonato la costruzione delle nostre identità ad un lavoro di cucito: cuciamo e rattoppiamo le esperienze presenti, passate e future della nostra vita raccontandole[6]. Narriamo di noi stessi, costruiamo una nostra identità e la comunichiamo agli altri: senza lingua non potremmo né tessere né comunicare quella visione che abbiamo di noi stessi che accuratamente costruiamo e disfiamo nel tempo.

plurilinguismo

E nei casi di plurilinguismo?

Una volta chiarito che la lingua svolge un ruolo fondamentale nella costruzione della nostra identità culturale, cosa succede, invece, all’identità quando parliamo e integriamo nella nostra vita più lingue diverse?

La studiosa Bonny Norton, impegnata nell’analizzare l’apprendimento da parte di migranti della lingua del paese d’arrivo, è alquanto chiara al riguardo: acquisire una nuova lingua non significa solo poter scambiare informazioni con chi quella lingua la parla normalmente, ma vuol dire anche e soprattutto riorganizzare il proprio modo di vedere sé stessi e il proprio rapporto sociale con il mondo[7]. In parole povere, secondo la Norton, fare propria una lingua “straniera” significa risistemare il nostro modo di comunicare, di rapportarci tanto con gli altri quanto con noi stessi: dare il benvenuto a nuove norme, a nuovi suoni, ad una nuova bellezza, a nuovi modi di esprimerci[8].

Secondo un altro ricercatore, Peter Ecke, invece, il plurilinguismo non si presenta senza costi: in diversi studi empirici egli ha dimostrato come l’acquisizione di una seconda lingua, se praticata molto più della lingua madre, può svantaggiare la padronanza della prima[9]. In altre parole, una seconda lingua può talvolta “occupare” il posto della prima e limitarne l’uso, finendo per relegarla al ruolo di lingua minore.

Contrariamente a questo senso di perdita evidenziato da Ecke, tuttavia, dal punto di vista strettamente identitario il nostro profilo linguistico non può che beneficiare del plurilinguismo. Infatti, secondo la ricercatrice croata Marijana Kresić ogni individuo possiede un’identità linguistica composta da una rete di lingue e registri che si intersecano e si rapportano tra loro[10]. Per fare un esempio, la studiosa si riconosce ad un tempo nelle figure di “linguista (specialmente attiva in lingua tedesca), madre, parlante nativa croata, anglista, tifosa e chattatrice”[11]. Ogni ruolo sociale in cui la studiosa si immedesima rispecchia una varietà, un registro particolare o una lingua specifica: ogni sfaccettatura sociale del nostro essere si ricollega, ovvero, ad un aspetto linguistico della nostra persona. Ne risulta che l’identità linguistica di ogni individuo deriva da un lavoro di cucito tra i nostri svariati ruoli sociali, ognuno associato ad un gergo, ad un registro o ad una lingua specifica.

Tutto questo induce ad una conclusione ben precisa. Sebbene nell’ottica degli studi di Ecke ci sia il rischio che i parlanti monolingue possano risultare più efficienti nell’uso della propria lingua madre rispetto ai bilingue che la trascurano, l’identità di un plurilingue si arricchisce in ogni caso di un profilo linguistico-sociale ibrido e complesso. Quest’ultimo è caratterizzato da una rete molto più ampia di varietà e codici linguistici rispetto a quella costruita dai parlanti monolingue. Con l’acquisizione e la pratica di nuove lingue ci si immedesima, dunque, in nuovi e più numerosi ruoli sociali, così da ottenere uno spettro più ampio di sé stessi.

David Pappalardo

Riferimenti

[1] Johann Wolfgang Goethe, Sossio Giametta (a cura di), Massime e riflessioni. Da «Kunst und Alterthum». Primo fascicolo del terzo volume 1821 (Cose proprie e appropriate in sentenze), Milano, BUR Rizzoli, 2013.

[2] https://www.treccani.it/vocabolario/identita/

[3] Erik Homburger Erikson, Identity and the Life Cycle, New York/London, W. W. Norton & Company, 1994 (1959), p. 22.

[4] George Herbert Mead, Charles W. Morris (a cura di), Mind, Self and Society: from the Standpoint of a Social Behaviorist, Chicago, University of Chicago Press, 2005 (1934), p. 135.

[5] Ivi, p. 150.

[6] Heiner Keupp et al., Identitätskonstruktionen. Patchwork der Identitäten in der Spätmoderne, Hamburg, Rowohlt Taschenbuch, 2006 (1999), pp. 207-208.

[7] Bonny Norton, Identity and Language Learning. Extending the Conversation, Bristol/Buffalo/Toronto, Multilingual Matters, 2013, p. 4.

[8] Dagmar Abendroth-Timmer, Eva-Maria Hennig, Introduction Plurilingualism and Multiliteracies: Identity Construction in Language Education, in D. Abendroth-Timmer, E. M. Hennig (a cura di), Plurilingualism and Multiliteracies, Frankfurt am Main, Peter Lang, 2014, p. 28.

[9] Peter Ecke, Die Kosten der Mehrsprachigkeit: Zeit und Fehler bei der Wortfindung, in «Babylonia», no. II, 2008, pp. 29-30.

[10] Marijana Kresić, Sprache, Sprechen und Identität. Studien zur sprachlich-medialen Konstruktion des Selbst, München, Iudicum, 2006, p. 225.

[11] Ivi, pp. 227-228.

Giovani e sostenibilitá: un impegno incoerente?

Il primo giugno segna l’uscita degli Stati Uniti dagli Accordi di Parigi del 2015, il trattato mondiale per combattere il riscaldamento globale[1]. Questo evento innesca una forte mobilitazione dei giovani in tutto il mondo.

In Europa come nel resto del mondo, l’impatto mediatico della militante svedese Greta Thunberg – seguito da un importante incremento del voto a impronta ecologista alle elezioni europee – hanno reso tangibile l’impegno collettivo dei giovani di fronte all’emergenza climatica. Il loro obiettivo è duplice: dimostrare che l’ecologia non è appannaggio esclusivo di un partito politico o di una classe sociale ma anche permettere un rilancio dell’Unione Europea attorno a dei valori comuni unificatori.

Ma al di lá della mobilitazione collettiva , a livello individuale, questi giovani perseguono davvero il loro impegno ecologico o sono talvolta preda di contraddizioni? Quali comportamenti sono davvero ecologici?

La mobilitazione collettiva dei giovani: un vento nuovo per una costruzione europea?

Giovani e sostenibilitá: perché questo impegno?

Anche se non hanno ancora l’etá per il voto, i giovani si impegnano ugualmente quando si tratta dei grandi temi legati all’ambiente e al futuro del pianeta[2]. I temi da loro preferiti fanno riferimento al degrado della biodiversitá degli oceani, del suolo, dell’aria e del clima, dell’inquinamento luminoso, a quello derivato della plastica e alla deforestazione.

Le rivendicazioni variano da un paese all’altro, i progressi in termini di protezione dell’ambiente sono stati infatti marcati da differenze di passo tra i vari paesi. Per esempio, per quanto riguarda la politica sugli imballaggi, sin dagli anni ’90 la Germania ha messo in piedi un sistema di consegne per le bottiglie riutilizzabili, dal 2003 si è dotata di un sistema anche per le lattine e le bottiglie in plastica[3]. Paesi come la Danimarca, l’Estonia, l’Islanda e la Svezia hanno un tasso di raccolta di imballaggi in vetro, plastica e alluminio molto elevato. Anche altri paesi come la Finlandia, la Norvegia, il Belgio e i Paesi Bassi hanno messo in campo delle politiche che incentivano la raccolta degli imballaggi di vetro, plastica e alluminio. In fine, altri paesi come Francia, Portogallo, Romania, Slovacchia e Lettonia sono in ritardo per quanto riguarda l’implementazione di tali sistemi. In materia di trasporti, l’Olanda, la Danimarca e l’Ungheria sono i paesi europei in cui gli abitanti utilizzano di piú le biciclette come mezzo di trasporto quotidiano con rispettivamente il 36%, il 23% e il 22% di persone che utilizzano questo mezzo[4].

Nel Sud e nell’Est dell’Unione Europea, si ritiene che sia il cambiamento climatico ad avere un impatto sulla vita quotidiana.[5]. In Grecia, Italia, Bulgaria, Slovenia, Ungheria e Croazia, la percentuale di coloro che ritengono che il cambiamento climatico abbia un impatto sulla vita di ogni giorno è di piú del 90%, mentre la percentuale scende all’80% tra i francesi, i polacchi, gli spagnoli e i portoghesi , per poi passare al 60% in Danimarca, Svezia, Finlandia e Regno Unito.

Quali mezzi utilizzano i giovani?

Questo connubio tra giovani e sostenibilitá si esprime con manifestazioni, scioperi studenteschi, condivisioni e sfide sui social network come la TrashTag Challenge in cui si pubblicano delle foto prima e dopo la pulizia di mari, spiagge o foreste.

Il modo in cui i giovani si impegnano non segue  i tatticismi e le strategie che appartengono invece alla politica, alla quale il 51% di essi imputa di avere una responsabilitá diretta in tema di protezione dell’ambiente. Inoltre, il 95% dei giovani sostengono che i politici non facciano abbastanza in tema di questioni ambientali e di cambiamento climatico e il 57% ritiene che addirittura i politici “non fanno proprio nulla a riguardo”[6].

giovani e sostenibitlitá : da chi dipende l'ambiente?
Caption grafico: “Ritieni che la protezione dell’ambiente sia una responsabilitá anzitutto di: governi e istituzioni pubbliche (51%), cittadini (34%), imprese (15%)”

Sin dalla loro piú giovane etá, i giovani vengono sensibilizzati al rispetto della natura e dell’ambiente e hanno quindi la volontá di agire nell’interesse generale pensando al loro avvenire e a quello delle generazioni future e spesso lo fanno formando o partecipando a associazioni al fine di far sentire le loro ragioni. L’inchiesta Eurobarometro sulla gioventú europea indica che il 53% dei giovani nella fascia 15-30 anni si sono impegnati in un’associazione nel corso del 2017[7].

E’ questo il caso della Lobby di Poissy, un’associazione di giovanissimi creata da Anaïs Willocq, insegnante presso la scuola Michel de Montaigne a Poissy (Francia) e Elsa Grangier, giornalista, realizzatrice e coordinatrice del progetto[8] , sostenuto da Nicolas Hulot – giornalista e ex ministro francese dell’Ecologia, della Sostenibilità e dell’Energia  – e Hubert Reeves, astrofisico e attivista ecologista.

Progressivamente, sono riusciti a mobilitare 310 ragazzi tra i 10 e i 17 anni, provenienti dalle scuole di una decina di paesi europei insieme ai loro 27 professori[9]. Con il collettivo Kids for Planet’s Rights che si è costituito in quell’occasione[10], ogni paese ha partecipato alla redazione della dichiarazione europea dei diritti del pianeta e degli esseri viventi che è stata presentata mercoledí 27 novembre 2019 al Parlamento Europeo di Strasburgo[11] e tradotta nelle 27 lingue dell’Unione Europea. L’articolo 18 della dichiarazione riprende la nozione di “ecocidio” introdotta in Francia dalla giurista Valérie Cabanes[12] che precisa che “il pianeta ha il diritto di essere rappresentato per agire in sede legale contro chiunque si renda responsabile dell’eccessivo inquinamento”[13].

giovani e sostenibilitá - la lobby di Poissy
la lobby di Poissy

Essere giovani e eco-responsabili: un impegno individuale talvolta contraddittorio

A proposito di abitudini consumiste ancora fortemente ancorate

Questo binomio tra giovani e sostenibilitá potrebbe lasciar pensare che i giovani adottino anche nel loro quotidiano dei comportamenti volti al rispetto dell’ambiente e alla lotta al cambiamento climatico. Tuttavia, uno studio svolto con il metodo delle quote tra il 1 e il 14 marzo 2019 con 1678 giovani tra i 18 e 23 anni ha mostrato che l’83% della generazione Z pensa di fare degli sforzi nel quotidiano per limitare il proprio impatto sull’ambiente e il 18% di essi dichiara addirittura di fare “molto” in questo senso[14], anche di piú delle generazioni precedenti. In Europa, questo non è vero se non in due settori: i trasporti – visto che i giovani preferiscono camminare, utilizzare i mezzi di trasporto  in comune, il car-sharing cosí come l’utilizzo della bicicletta e dei monopattini elettrici – e le alternative all’acquisto di prodotti nuovi preferendo il mercato delle occasioni, lo scambio di prodotti usati e il noleggio[15].

Tuttavia questa relazione virtuosa tra giovani e sostenibilitá è contraddetta da alcuni loro comportamenti che non sono invece ecosostenibili in altri aspetti in cui essi sembrano fare meno sforzi che le generazioni precedenti[16]. Qui alcuni esempi:

–          La raccolta differenziata in modo sistematico (63%) ;

–          La riduzione del consumo di prodotti usa e getta (47%) ;

–          La riduzione dei consumi di acqua e energia (46%) ;

–          L’acquisto sistematico di prodotti locali (25%) ;

–          L’utilizzo di mezzi di trasporto piú ecologici (23%) ;

–          L’utilizzo meno frequente e piú efficace dell’auto (22%) ;

–          Evitare di prendere l’aereo per viaggi di corto raggio (9%) ;

Le abitudini consumistiche e edoniste sembrano essere ancora ancorate tra i giovani, che acquistano prodotti nuovi, e approfittano dei saldi per acquistare piú prodotti[17], non rinunciano ai viaggi in aereo e non hanno il riflesso automatico di spegnere gli apparecchi elettronici lasciandoli in stand-by.

Una falsa conoscenza di ció che è realmente ecologico

Con molta buona volontá e convinzione, spesso i giovani cercano di adottare un comportamento ecosostenibile ma sono spesso vittime di una falsa-conoscenza rispetto a ció che è veramente un modo d’agire ecosostenibile e ció che semplicemente sembra esserlo. Le tecniche di comunicazione chiamate “greenwashing”[18]  inquinano le acque e non permettono sempre ai giovani di fare delle scelte consapevoli e eco-responsabili. Ingannati dalle sirene del marketing, acquistano prodotti con etichette “eco” o “bio” con imballaggi biodegradabili quando invece potrebbero comprare lo stesso prodotto direttamente sfuso, o prodotti che hanno un unico utilizzo invece di utilizzare contenitori che possono essere utilizzati piú volte. Il computer, per esempio, è utilizzato al posto della televisione per vedere video o film in streaming e l’ascolto della musica online ha ormai rimpiazzato le modalitá di ascolto utilizzate dalle generazioni precedenti (vinili, cd, ecc.). Nonostante questi strumenti sembrino “green” o “ecofriendly”, in realtá essi consumano una grande quantitá di dati con un impatto ecologico colossale in termini di CO2. Le bici e i monopattini elettrici – particolarmente apprezzati dai ragazzi – possono sembrare dei mezzi di spostamento ecosostenibili, ma lo sono solo in parte in quanto funzionano anche grazie a batterie contenenti litio, la cui estrazione richiede grandi quantitá d’acqua[19] .

Converrebbe quindi domandarci quali siano le azioni che potrebbero portare a incentivare i giovani a capire cosa è e cosa non è ecologico cosicché possano adottare comportamenti piú coerenti con le loro istanze di sostenibilitá ambientale. É vero che l’atteggiamento in merito a queste tematiche sta evolvendo in maniera assolutamente positiva sia a livello collettivo che individuale, ma cosa possono fare i giovani se non ricevono un’adeguata informazione e se i prodotti a loro proposti non sono rispettosi dell’ambiente?

Le politiche pubbliche in favore della difesa dell’ambiente devono dunque essere piú forti in materia di prevenzione e sensibilizzazione attraverso per esempio: campagne d’informazione e comunicazione nelle scuole, un sistema di etichette dettagliato sui prodotti non inquinanti o riciclabili, sovvenzioni per il noleggio o per l’acquisto anche di beni come bici e monopattini non elettrici e non unicamente per quelli elettrici come invece avviene in alcuni paesi[20], la promulgazione di leggi rivolte all’industria al fine di disincentivare la produzione di prodotti con eccessivi imballaggi benché riciclabili, e molto altro ancora.

Ma pure le motivazioni economiche si frappongono tra giovani e sostenibilitá. I prodotti bio e ecosostenibili hanno spesso un costo piú elevato rispetto agli altri prodotti e per alcuni giovani i benefici non sono tanto importanti da cambiare i loro comportamenti d’acquisto dirigendoli verso questi prodotti[21].

Il cambiamento di mentalitá e comportamenti non puó realizzarsi dall’oggi al domani. Questo cambiamento non potrá essere efficace e duraturo se non avvenendo in modo piú lento in alcune decine d’anni con un adeguamento ai principi della transizione ecologica che è un’evoluzione verso un nuovo modello economico e sociale e un modello di sviluppo sostenibile[22]. Le soluzioni proposte devono essere frutto di profonda e attenta riflessione, moderate e realiste per non rischiare di ottenere risultati opposti a quelli desiderati o che le decisioni prese siano oggetto di interessi economici o ancora che rendano l’Europa dipendente da altre potenze mondiali (come ad esempio Russia e Cina).

La Commissione Europea ha dunque presentato l’European Green Deal. Un patto verde per l’ambiente che raggruppa diverse iniziative europee con il fine di rendere l’Europa climaticamente neutrale nel 2050. Votata dal Parlamento Europeo il 7 ottobre 2020, ha come obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra del 60% da qui al 2030 (prendendo come livello di partenza il 1990)[23], cosí come pure di ridurre l’utilizzo e il rischio della presenza di pesticidi nell’agricoltura e nell’alimentazione da qui al 2030 attraverso la strategia del “dal forcone alla forchetta”[24] e della protezione della biodiversitá.

Corinne Ors

tradotto in italiano dal francese da Filippo Paggiarin e Livia Corbelli

Note e Fonti

[1] https://unfccc.int/fr/process-and-meetings/l-accord-de-paris/qu-est-ce-que-l-accord-de-paris

[2] Anne-Marie Dieu, direttrice della ricerca presso l’Osservatorio dell’infanzia, la gioventú e l’aiuto alla gioventú in Vallonia https://www.touteleurope.eu/actualite/la-question-climatique-a-t-elle-redonne-aux-jeunes-europeens-le-gout-de-la-politique.html

[3] https://www.linfodurable.fr/entreprises/consigne-sur-les-emballages-que-font-les-autres-pays-europeens-12406

[4] https://www.lemonde.fr/blog/transports/2019/05/11/10-chiffres-sur-le-velo-en-europe/

[5] https://www.ouest-france.fr/environnement/climat/41-des-jeunes-europeens-pensent-qu-ils-devront-demenager-cause-du-changement-climatique-6624317 : un’inchiesta dell’istituto BVA realizzata dalla Banca Europea per gli Investimenti (BEI) pubblicata lunedí 25 novembre 2019..

[6] https://diplomeo.com/actualite-sondage_ecologie_jeunes

[7] https://www.touteleurope.eu/actualite/la-question-climatique-a-t-elle-redonne-aux-jeunes-europeens-le-gout-de-la-politique.html

[8] Elsa Grangier, Rêver Grand, Ces enfants qui s’engagent pour la planète, ”Questi bambini che si impegnano per il pianeta” Éditions du Seuil, Paris, mars 2020.

[9] I paesi coinvolti sono stati: Polonia, Spagna, Italia, Portogallo, Germania, Repubblica Ceca, Croazia, Svezia e la Francia con i suoi Dipartimenti d’Oltremare come la Guyana, la Polinesia Francese e Réunion.

[10] www.kidsforplanetrights.org

[11] https://ec.europa.eu/france/news/20191127/declaration_europeenne_droits_planete_fr

[12] Valérie Cabanes é una giurista che si occupa di diritto internazionale specializzata nei diritti umani e diritto umanitario, è altresí un’ecologista e saggista francese.

[13] Questo riconoscimento dei diritti legali e fondamentali è giá stato adottato nella costituzione dell’Ecuador nel 2008, anche la Bolivia ha preso misure simili. Dal 2010, l’ONU ha proclamato che l’armonia con la natura deve essere ricercata e accompagnare lo sviluppo delle societá umane.

[14] Sondaggio a proposito di giovani e sostenibilitá https://diplomeo.com/actualite-sondage_ecologie_jeunes

[15] https://www.credoc.fr/publications/environnement-les-jeunes-ont-de-fortes-inquietudes-mais-leurs-comportements-restent-consumeristes

[16]https://www.europarl.europa.eu/at-your-service/files/be-heard/eurobarometer/2016/european-youth-in-2016/analytical-overview/fr-analytical-overview-european-youth-in-2016.pdf

[17] https://www.lefigaro.fr/conjoncture/malgre-leur-fibre-ecolo-les-jeunes-sont-plus-consumeristes-que-leurs-aines-20191230

[18] https://greenwashingeconomy.com/definition/definition-developpement-durable/definition-greenwashing/

[19] Il litio é un metallo alcalino estratto in paesi lontani dall’europa (Australia, Cina, Argentina, Cina)

[20] https://www.service-public.fr/particuliers/actualites/A14091

[21] https://diplomeo.com/actualite-sondage_ecologie_jeunes

[22] https://www.service-public.fr/particuliers/actualites/A14091https://www.touteleurope.eu/consultations-citoyennes/le-developpement-durable-en-europe/transition-ecologique-et-mobilite-durable.html

[23] https://www.europarl.europa.eu/news/fr/headlines/society/20190926STO62270/qu-est-ce-que-la-neutralite-carbone-et-comment-l-atteindre-d-ici-2050

[24] A Farm to Fork Strategy for a fair, healthy and environmentally-friendly food system é una strategia che fa parte delle 11 componenti del Patto Verde. Essa fissa 5 obiettivi prioritari da raggiungere: assicurare la sicurezza degli alimenti, ridurre il consumo di pesticidi e fertilizzanti, lottare contro la resistenza agli antibiotici, sostenere l’innovazione e migliorare l’informazione dei consumatori. La strategia “dal forcone alla forchetta” prevede come obiettivo la riduzione dell’utilizzo di prodotti fitosanitari, dei fertilizzanti e degli antibiotici, il supporto ai piani di sviluppo dell’agricoltura biologica, la lotta allo spreco alimentare e contro le frodi nella catena di approvvigionamento agroalimentare come pure la riapertura del dibattito sull’utilizzo di proteine animali trasformate, il ricorso a nuove tecniche di selezione vegetale o il benessere degli animali. Fonte:  http://www.agra.fr/strat-gie-de-la-fourche-la-fourchette-bruxelles-consulte-art459985-1.html?Itemid=333

 

Alice Ceresa: la donna come invenzione

Siamo nei famosi anni ’60, nella casa romana di Alice Ceresa, mentre lavora maniacalmente ai suoi manoscritti, correggendo e limando continuamente le varie bozze: una fumatrice accanita, una scrittrice riservata e silenziosa, che preferisce non esporsi al pubblico e restare negli angoli dei circoli letterari per produrre libri da lasciare inediti. Ceresa, in realtà, è nata nel 1923 a Basilea, ma cresce spostandosi tra i cantoni svizzeri, per poi trasferirsi in Italia, dove prende parte al Gruppo 63[1] per affinità e per necessità, superando le frontiere linguistiche e nazionali. Fin da giovane, infatti, avverte l’urgenza di scrivere per denunciare la visione maschilista e viricentrica che nota permeare ogni sostrato sociale. Non a caso, sin da adolescente, prende come modello di vita e di scrittura Annemarie Clarac-Schwarzenbach (1908-1942), scrittrice e fotografa androgina e bisessuale, che viaggia in tutto il mondo scrivendo e documentando la realtà in Europa, Africa, Siria, India, Russia, Persia. È da lei che assorbe la visione del mondo, l’onestà intellettuale e il carattere ribelle, pur rifiutandone la spericolatezza esistenziale. 

basilea
Figura 1- Basilea, vista dal Reno

La donna: inventata e silenziosa

Alice Ceresa segue l’assoluta necessità di scrivere sull’inuguaglianza femminile, che vede non solo nel sistema politico e sociale, ma anche nell’immaginario culturale e persino nella grammatica e nella linguistica, tanto da ritenerla «ancorata nella intera visione del mondo»[2]. Secondo la scrittrice, il predominio della maschilità si insinua in ogni campo del sapere, condannando implicitamente il fatto di nascere femmina. Nel suo Piccolo dizionario dell’inuguaglianza femminile (Nottetempo, 2007), Ceresa raggruppa diversi lemmi con un unico intento: mettere in discussione il carattere innaturale e prescrittivo del patriarcato. L’idea di femminilità insita nella lingua, dunque, non sarebbe che un atto di espressione della maschilità, che vuole rivendicare e affermare i propri connotati attraverso il suo contrario. Donna e femmina secondo l’autrice sarebbero due concetti distinti: il secondo, infatti, rimanda a una caratteristica biologica, mentre il primo non è che un derivato culturale, artificiale e fuorviante, generato sin dall’antichità dalla mente umana. In altre parole, il concetto di donna è solo un’invenzione umana, che non esiste come entità ontologica, ma solo come concetto grammaticale o come categoria cognitiva: «una donna non è dunque una femmina, ma un prodotto culturale»[3].  Secondo Ceresa, d’altronde, l’uomo non è più capace di distinguere ciò che ha per sua natura da ciò che è per artificio, ciò che è istinto da ciò che è suo arbitrio.

Lo sguardo di Alice Ceresa sulle donne

Il femminismo di Ceresa, allora, si presenta nelle sue opere letterarie in modo esplicito, come nel Piccolo dizionario, o in modo più velato, come nei romanzi La figlia prodiga (Einaudi, 1967), Bambine (Einaudi, 1990) e La morte del padre (Einaudi, 1979). I personaggi femminili appaiono senza voce e senza nome, connotati principalmente con lo status di figlie, e restano individui potenzialmente inespressi e schiacciati dai legami asfissianti dell’istituzione famigliare. La famiglia patriarcale appare quindi come una gabbia fatta di relazioni mancate e di incomunicabilità incolmabili, di timori e rivalità. Soltanto la morte del padre (figura del patriarcato) permette la liberazione e l’autoaffermazione delle “femmine umane”.  Ceresa allora si serve della scrittura per mettere in crisi il sistema sociale imposto e usa la narrazione per decostruire dall’interno il genere romanzesco.

Il lettore che voglia intraprendere questo percorso di consapevolezza non si aspetti delle opere di facile fruizione: lo stile di Ceresa è concettoso, astratto, trattatistico e a volte poco fluido. Ma, ancora una volta, la letteratura si conferma un potente strumento per allenare il senso critico e per mettere in discussione ogni prescrizione subita: solo la presa di coscienza può portare a un cambiamento consapevole. Si scrive e si legge, quindi, non solo per piacere, ma anche per necessità, secondo quello che Ceresa rivela nel suo lemmario: «conclusione: il piccolo dizionario io non lo scrivo per le donne; lo scrivo perché va scritto».[4]

Eleonora Norcini

NB: il consiglio é di leggere le opere edite di Ceresa in ordine anti-cronologico! Partite dal Piccolo dizionario, per poi introdurvi dolcemente ne La morte del padre e in Bambine, e infine lasciatevi travolgere da La figlia prodiga (fateci sapere se ne uscite integri!).

Riferimenti

[1] Il Gruppo 63 è un movimento letterario fondato a Palermo nel 1963. Rientra nelle neoavanguardie storiche per lo stile sperimentale e la volontà di mettere in discussione le convenzioni sociali e letterarie del tempo. Tra i componenti: Alfredo Giuliani, Edoardo Sanguineti, Umberto Eco, Elio Pagliarani, Alice Ceresa, Giorgio Manganelli, Antonio Porta, Fausto Curi, Amelia Rosselli, Nanni Balestrini.

[2] A. Ceresa, Lettera a Michèle Causse, in Piccolo dizionario dell’inuguaglianza femminile, Tatiana Crivelli (a cura di), Roma, Edizioni Nottetempo, 2007, p. 14.

[3] Ibi, p. 39.

[4] A. Ceresa, Lettera a Michèle Causse, in Piccolo dizionario dell’inuguaglianza femminile, Tatiana Crivelli (a cura di), Roma, Edizioni Nottetempo, 2007, p. 14.

BIBLIOGRAFIA

Bosco, Alessandro, Alice (Ceresa) disambientata, «Doppiozero», 07/07/2020, consultato il 18/11/2020, https://www.doppiozero.com/materiali/alice-ceresa-disambientata.

Ceresa, Alice, La figlia prodiga e altre storie, Milano, La tartaruga edizioni, 2004.

Ceresa, Alice, Piccolo dizionario dell’inuguaglianza femminile, Tatiana Crivelli (a cura di), Roma, Edizioni Nottetempo, 2007.

Pubblicato “Primi Passi” – il primo libro di Livia Corbelli

Il 9 Marzo è stato pubblicato Primi Passi, il primo libro di Livia, fondatrice e autrice di questo blog. Noi di Jeune Europe siamo molto felici e orgogliosi del suo traguardo; speriamo che questo libro possa essere per voi un invito alla lettura, alla riflessione, alla pausa necessaria.

Livia, anzitutto dicci tu cosa è Primi Passi

Primi passi è certamente una raccolta di poesie, ma è anche una forma di consapevolezza del proprio sentire. Direi che si tratta di un modo di intendere la propria ferita, considerandola un varco, un invito a scendersi dentro. Così facendo, si attribuisce valore al suo bruciare, senso al suo esistere. Ma Primi passi è anche e soprattutto un sogno che si realizza, sebbene io non sia mai stata una sognatrice in senso stretto. Eppure, spesso nel corso degli anni mi sono trovata ad immaginare come sarebbe stato se qualcuno avesse tenuto in mano le mie parole, che cosa avrei saputo trasmettere e come mi sarei sentita. Ora è successo – cos’ho saputo trasmettere aspetto per dirlo, come mi sento lo so: incredula e felice.

Come – ma pure dove e quando! – è nato?

Non c’è un tracciato preciso, né metodico né spazio-temporale. Ho sempre scritto quando sentivo che qualcosa doveva uscire, ciò significa che potevo trovarmi in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento: si trattava di non bloccare un pensiero. L’idea della silloge poetica è nata in seguito quando, rileggendo – come spesso faccio – le poesie che avevo accumulato nel corso di un paio d’anni, mi sono resa conto che costituivano un insieme coerente e sensato.

Come mai la scelta di pubblicare in italiano e in francese?

Non è stata una vera scelta; direi piuttosto che è stata una presa d’atto: quando dico che mi sono resa conto della coerenza e sensatezza dell’insieme delle mie poesie mi riferisco sia a quelle in italiano che a quelle in francese. In fondo, fanno parte di uno stesso viaggio, nascono dallo stesso bisogno di espressione.

Quando è che ti ritrovi a scrivere? Come nascono queste poesie?

Diciamo che, in generale, mi servono momenti di solitudine e di silenzio, dei momenti di pausa, direi. Di solito sono quelli i momenti in cui i pensieri e le sensazioni che ho raccolto nella frenesia dei giorni tornano a bussare alla mia porta.
Come nascono… direi, in due modi: a volte da un’immagine che mi sembra descrivere perfettamente una sensazione e allora cerco di riprodurla a parole; altre volte da una parola o da una frase che, connessa ad una sensazione, mi gira in testa da un po’ e allora cerco di costruire un’immagine intorno a quella. Credo che potrei identificare una “parola-portante” in ogni poesia.

Quale è il tuo rapporto con ciò che scrivi? C’è una delle poesie che hai scritto alla quale ti senti più legata?

E’ un rapporto di grande intimità; e questo è ciò che rende bello e spaventoso consegnare le proprie parole agli altri.
Mi sento legata a molte poesie, non saprei dirne una senza legarla ad altre. Però, se proprio devo, questa può essere una di quelle:

Gatta , raccolta in una spossatezza baritonale,
seguo a dito i contorni del mio corpo
con lentezza attenta e circospetta:
tasto il tempo che cambia.
Il pelo sul cuore e il mutamento della carne
– li assaporo poco a poco.

Nell’ombra lunga di quello che c’è
e di quello che non c’è, allungo la schiena,
allargo le dita dei piedi, scrocchio quelle delle mani,
modifico il respiro, stringo i glutei,
sfioro i seni, strofino le labbra,
premo sul ventre, accavallo le gambe,
chiudo gli occhi, stringo le spalle –
apro le braccia a croce:
che lo voglia o no, mi appartengo
e finché resto distesa a letto,
al buio, posso essere tutto.
Perdo i contorni mentre il sangue fluisce
tra i bordi delle mie crepe aperte
alla rimarginazione o alla nascita.

Guardarsi con benevolenza
ad occhi chiusi: ritrovar-si
e ritrovare il desiderio è un gioco
serio che può durare tutta la vita.

Hai già idee per il futuro?

Mi piacerebbe continuare a scrivere, chiaramente; e, in parte, lo sto già facendo. Ma siccome scrivere, per me, è un modo per assecondarmi e, quindi, risponde sempre a un’esigenza personale, non credo mi porrò obiettivi troppo rigidi. Non per ora, almeno.

Dove trovarlo?

Nell’attesa di trovarlo in libreria (dove comunque può essere ordinato), si può trovare online ai seguenti link che mettiamo qui sotto.

Cosa vorresti dire a chi sta per aprire il tuo libro?

Prenditi tempo per sentire quello che senti, per lasciarlo scorrere.

Calibano Editore: https://www.calibanoeditore.com/libri/Primi_passi_Livia_Corbelli?fbclid=IwAR2L-QiYnaL9hdVPaCLQynTvPc8vN16xdE0Rbc0l2YPsFX2CPCvEHm5_gwQ

Amazon: https://www.amazon.it/Primi-passi-Livia-Corbelli/dp/889499256X/ref=sr_1_1?__mk_it_IT=%C3%85M%C3%85%C5%BD%C3%95%C3%91&keywords=livia+corbelli+primi+passi&qid=1583415952&s=books&sr=1-1&fbclid=IwAR3GXL1rFUhnWpfSJC6yjn0ugfVk3bAGP0-HfFJ5YsU-Mq88vHV_NgvJVzI

Libreria Universitaria: https://www.libreriauniversitaria.it/primi-passi-corbelli-livia-calibano/libro/9788894992564?fbclid=IwAR3g6KLvebSEdtLv1adKpNRY7nwOG4GnVDsdjjNlaB0rT2fOgbqskzybjHY

Feltrinelli: https://www.lafeltrinelli.it/libri/livia-corbelli/primi-passi/9788894992564?fbclid=IwAR3taoVGwcynRy0NKi5bA5uBLGe60c0UnERS2ZdC1vSirYsosYy9N8btFOE

IBS: https://www.ibs.it/primi-passi-libro-livia-corbelli/e/9788894992564


Minoranze da proteggere e unione nella diversità: il Minority SafePack

Le fondamenta delle società in cui ci identifichiamo giacciono nelle lingue che parliamo. Con esse costruiamo culture: comunità connesse da una stessa lingua e tradizione. Tuttavia l’Europa, cosí come pure più o meno ogni Paese al suo interno, è sempre stata multiculturale. Oggi, l’UE unisce 27 paesi diversi, ma le culture al suo interno sono ben più numerose. Per dare giusto un’idea che spieghi quanto l’Europa sia varia al suo interno, basta dare uno sguardo all’incredibile numero di lingue parlate all’interno dell’Unione Europea. Almeno due dozzine di lingue fanno già parte della lista delle lingue ufficiali dell’UE, ma oltre a queste esistono anche una sessantina di lingue locali o appartenenti a minoranze [1]. Tra queste ci sono per esempio le lingue dei Sorbi (minoranza etnica di origine slava presente in Germania, Polonia e Repubblica Ceca) e quella dei Frisoni (gruppo etnico germanico presente nei Paesi Bassi e in Germania) e molte altre lingue parlate in paesi in cui la cultura prevalente è un’altra.

 

Alcune minoranze linguistiche – e con esse le rispettive culture – possiedono diversi livelli di autonomia negli stati in cui sono presenti. Un esempio di questo è dato dalla minoranza Ladina nel Sud Tirolo che possiede una certa autonomia politica rispetto alle province autonome di Trento e Bolzano e hanno un seggio riservato nel consiglio provinciale di Belluno e uno in quello della Regione Veneto [2]. Altri gruppi però mantengono costumi e tradizioni locali senza avere riconoscimenti politici. Poichè molti di questi gruppi rischiano l’estinzione [3], l’Europa può e deve agire.

 

Il minority SafePack a protezione delle minoranze

Per questo motivo è stato concepito il Minority Safepack  [4], che ha avuto inizio come iniziativa legislativa dei cittadini europei (ECI, European Citizens Initiative) ed è stato poi appoggiato e rilanciato dalla FUEN (l’Unione Federale delle Nazionalità Europee). Il pacchetto di proposte di riforma offre vari strumenti con i quali l’Europa può difendere i diritti delle sue minoranze. Tra questi, c’è l’istituzione dell’European Language Diversity Center, un’agenzia decentralizzata che può promuovere la diversità linguistica e culturale supportando gli sforzi messi in campo dai singoli stati membri.

Il Minority SafePack propone anche di tenere in considerazione la presenza di minoranze linguistiche e culturali come valore aggiunto importante quando si tratta di stanziare fondi UE per lo sviluppo di una regione. Oltre a questo, il pacchetto include riforme del copyright e della libertà di fruizione di materiale culturale in lingua che permetterebbe alle persone di accedere a contenuti audiovisivi senza incorrere nel geoblocking (il non poter vedere un canale televisivo in altri paesi rispetto a quello di appartenenza del canale) e in altri ostacoli che impediscano di poter godere di contenuti culturali nella propria lingua. Un esempio di questo, seppur banale, riguarda la trasmissione di eventi sportivi che le minoranze vorrebbero magari vedere nella lingua di un altro Paese, cosa che – a causa del geoblocking – al momento non possono fare. Ma il Minority SafePack non è solo questo: un esempio più importante riguarda infatti la difficoltà di accedere ad un’istruzione nella propria lingua materna, fattore che ad oggi pone le minoranze a rischio di subire un’assimilazione culturale. Ci sono poi molti altri esempi di temi affrontati dal Minority SafePack e proposte per la difesa delle minoranze con un effetto tangibile nel concreto.

Niente lasciato al caso

Le diverse proposte del Minority SafePack hanno molto in comune tra loro. Prima di tutto, offrono alle minoranze dei miglioramenti nel quotidiano e la possibilità all’UE di dimostrare la propria concretezza affrontando problemi reali. In secondo luogo, possono  già essere applicate tutte dalle attuali istituzioni europee: per l’UE, non si tratta dunque di fornire un semplice supporto alle politiche, ma di una reale possibilità di passare direttamente all’azione.

Infine, e ancora più importante, c’é da tenere in considerazione il fatto che nessuna delle proposte presenti nel Minority SafePack presenta rischi per la cultura maggioritaria o per l’unità di un paese. Il Minority SafePack non favorirà infatti la frammentazione degli Stati; al contrario, includendo le minoranze e dando loro il dovuto riconoscimento, si potrà ottenere un’unione più stabile per le future generazioni. Con i diritti delle minoranze assicurati a livello europeo, sarà infatti più difficile per i movimenti indipendentisti fare leva su sentimenti di sottorappresentanza e di minaccia verso la propria comunità.

Commissione Europea e SafePack
Il SafePack viene presentato alla Commissione Europea

Infatti, a ben vedere la stessa Unione Europea è nata proprio per superare problemi interni ai singoli paesi e nell’interesse di tutti i suoi popoli senza sacrificare il benessere di altri. Per questo, non è solo un dovere legale o morale quello di lavorare per muoversi nella direzione indicata dal Minority SafePack, ma è anche un qualcosa di intrinsecamente legato all’idea di Unione in quanto tale. Questa è infatti l’idea alla base dell’UE: la certezza che siamo più forti quando siamo uniti. Per questo motivo, l’UE rappresenta il miglior garante per la salvaguardia delle minoranze linguistiche e – per estensione – delle relative culture.

Con il Minority SafePack, l’Unione Europea può dunque allo stesso tempo proteggere le culture che altrimenti rischierebbero di svanire cancellate dal corso della storia, senza per questo però minare la lingua maggioritaria di un paese. Si tratta quindi di soluzioni win-win, che offrono un modo per promuovere un’unità genuina e una vera diversità.

Oltre un milione di Europei hanno firmato questa petizione formando un’ECI (iniziativa dei cittadini europei) [5] e quasi tre quarti del Parlamento Europeo hanno già votato una risoluzione per spingere la Commissione a legiferare su questa materia. Per i 50 milioni di Europei che parlano una lingua minoritaria (fonte), sentir parlare di queste politiche unitarie dà speranza [6]. Ora quindi, non resta che sperare che la commissaria Věra Jourová ascolti queste voci e che la Commissione Europea decida di procedere con un progetto legislativo per proteggere le molte minoranze che vivono nell’Unione.

Joel Boehme

[1] https://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/BRIE/2020/652086/EPRS_BRI(2020)652086_EN.pdf

[2] http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/17/DDLPRES/0/702274/index.html?stampa=si&aj=no&part=ddlpres_ddlpres1

[3] https://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/BRIE/2016/589794/EPRS_BRI(2016)589794_EN.pdf

[4] http://www.minority-safepack.eu/

[5] https://europa.eu/citizens-initiative/initiatives/details/2017/000004_en

[6] https://www.europarl.europa.eu/EPRS/EPRS-Briefing-589794-Regional-minority-languages-EU-FINAL.pdf

Le difficoltà di un italiano nell’imparare il francese

È pensiero comune ritenere che l’italiano e il francese siano “uguali” e che un italiano non avrà alcun problema ad apprendere il francese, o viceversa. Nulla di più falso! Naturalmente noi italiani siamo più avvantaggiati rispetto ad un cinese o un arabo, poiché le due lingue sono neolatine e le somiglianze molteplici. Sono presenti moltissime costruzioni sintattiche, modi di dire, ed altri elementi linguistici che non hanno alcun senso per un parlante la cui madrelingua non sia neolatina, ma che sono naturali per un italiano, uno spagnolo o un portoghese.

Tuttavia, per ottenere un alto livello di competenza linguistica, anche un italiano deve studiare, esercitarsi e…fare errori. Il francese è la quinta lingua che apprendo, e quindi ormai so benissimo che il solo modo di apprendere una lingua è quello di fare errori, di buttarsi, di parlare (o scrivere) non appena vi sia anche la benché minima possibilità di avere un qualsivoglia contatto con un interlocutore madrelingua. Ed è proprio ciò che sto facendo anche con il francese. In più, vivendo al momento in Francia, sento proprio la necessità di dover comunicare efficacemente coi nativi: non mi piace sentirmi imprigionato all’interno di una bolla!

Ad ogni modo, la “strada verso il bilinguismo” è costantemente in salita, perché, come avviene con l’apprendimento di ogni altra lingua, anche il francese presenta delle difficoltà. In particolare, data l’influenza della nostra madrelingua, gli ambiti che un parlante italiano può trovare (si legga: che ho trovato o trovo!) più spinosi quando apprende il francese sono:

  1. Certi aspetti della grammatica come:

– il modo di costruire la frase interrogativa con “est-ce que…”, o con l’inversione soggetto-verbo; in italiano, fondamentalmente è sufficiente un cambio nell’intonazione della frase, senza aggiunte o modifiche sintattiche. Tuttavia, questo aspetto non è particolarmente difficile, e basta un po’ di pratica per padroneggiarlo completamente.

– la frase negativa; per costruire la frase negativa, in francese si deve utilizzare una particella in più rispetto all’italiano: il “pas” (Io non mangio vs. Je ne mange pas). Storicamente, il francese era uguale all’italiano sotto questo punto di vista: solamente il “ne” era necessario. Successivamente, la particella post-verbale “pas” è stata aggiunta (in origine vi erano dei collegamenti semantici con “je ne marche pas”, dove “pas” stava letteralmente a significare “passo”). Ora, nel francese colloquiale, è addirittura possibile far cadere totalmente il “ne” (questo fenomeno linguistico relativo all’evoluzione del modo di esprimere la negazione è chiamato “Ciclo di Jespersen”). Quindi, è bene porre attenzione ad utilizzare in modo corretto la negazione, altrimenti, se si dimentica il “pas”, e si usa solo il “ne”, si potrebbe dare l’impressione di parlare francese antico!

– sebbene i tempi e i modi verbali siano gli stessi sia in italiano che in francese, la loro morfologia è evidentemente differente. L’uso di tempi verbali più complessi come il congiuntivo o il condizionale, è veramente problematico, e serve una buona competenza linguistica (soprattutto all’orale) per riuscire ad utilizzarli correttamente.

  1. La fonetica è un dramma! Ci sono dei suoni strani che non esistono in italiano (come la “R francese” e le vocali nasali), e la pronuncia di alcune parole è davvero particolare (“serrurerie”, “grenouille”, “yeux”, “quincaillerie”)!

  1. L’ortografia, strettamente collegata alla fonetica: ancor più drammatica! Se in italiano la corrispondenza suono-lettera è pressoché uno ad uno, in francese questo aspetto è da pazzi. Basti pensare alle parole “heureuse” o “beaucoup” che presentano molteplici lettere mute, o a “houx” (4 lettere, ma soltanto una vocale)! E che dire a proposito delle pronunce differenti a seconda del contesto? Un esempio emblematico è quello della parola “plus”: si pronuncia plus (con la S), plus (senza S), o plus (con la Z, facendo la liaison)? Ad esempio, si dice 2 plus 2 (con la S), ma je n’aime plus le café e je suis plus fort que toi (entrambi senza S), ma ancora je suis plus intelligent que toi (liaison, con la Z)! In più, con il solo indizio uditivo, non c’è proprio modo di sapere come si scrive una parola che si sente pronunciare: potrebbe essere in 15 modi diversi! E gli accenti, oddio, a destra, a sinistra, il circonflesso, la dieresi, aiuto!

  1. Il lessico: anche sotto questo aspetto si presentano delle problematiche. Dai, non neghiamolo, le similarità lessicali tra queste due lingue sono molto numerose, e la maggior parte delle volte, buttarsi e usare quella parola lì “perché tanto può essere che si dice come in italiano”, funziona, e come! Ma sfortunatamente non è sempre così. Certe volte provare ad usare una “parola italiana” non dà il risultato sperato e può accadere di dire una parola che non esiste, o, ancora peggio, che esiste ma ha un significato diverso; i cosiddetti falsi amici: fare delle gaffe è assicurato! Ecco qui infatti un esempio di falsi amici tra tre lingue neolatine con la parola salire:

FrançaisItalienEspagnol
salirsporcareensuciar
montersaliresubir
sortirusciresalir
apprendre pour un italien: de la pizza à la baguette

Ma poi spiegatemi un po’, i francesi sono tutti fenomeni in matematica!? Perché dopo il 69, cominciano a contare in modo strano? Contare normalmente non andava più bene? 8 mesi fa, quando ho cominciato a studiare il francese, mi è toccato rispolverare il libro di matematica delle superiori!

Scherzi a parte, se si vuole davvero diventare fluenti in francese, conoscere e padroneggiare le suddette regole è d’obbligo. E ciò vale anche per gli italiani! Naturalmente, non è un processo rapido o facile, serve tempo, ma noi italiani possiamo apprendere questa lingua più velocemente di altri parlanti che hanno una lingua madre molto distante dalla nostra.

Comunque, e ciò vale per tutte le lingue, non solo per il francese, non sono solo le difficoltà linguistiche ad influenzare l’apprendimento. Ci sono anche altri fattori, sia interni che esterni, come: la forza di volontà, gli stimoli, la motivazione, la perseveranza, la personalità, il luogo e il modo d’apprendimento. Chiaramente, non tutti apprendono alla medesima velocità, ma se la forza di volontà è buona, si è sufficientemente motivati e stimolati, e si ha la perseveranza di ottenere costantemente risultati postivi, la lingua si apprenderà più rapidamente.

Lo studente può sentirsi stimolato da vari fattori, tra cui, l’amore per la comunità di parlanti o per la lingua in sé, la volontà di sentirsi integrato nel luogo in cui si vive, la soddisfazione personale, o semplicemente vuole prendere un buon voto al prossimo esame oppure ottenere un avanzamento di carriera. In ogni caso, più la lingua verrà studiata con passione e migliori saranno i risultati, in un tempo più breve.

Ugualmente, anche il luogo e il metodo di apprendimento sono importanti fattori da tenere in considerazione: se la lingua viene appresa sul posto (vs. da casa), e con un professore (vs. da autodidatta), la velocità d’apprendimento sarà superiore, perché ci sarà una persona che può correggere all’istante gli errori commessi, e in più, le possibilità di praticare la lingua saranno più numerose. Sotto questo aspetto, la personalità gioca un ruolo fondamentale: se lo studente è più estroverso e non gli interessa di fare errori di fronte agli altri, otterrà migliori risultati, perché, come si suol dire, sbagliando s’impara!

Eduardo Calò

Il tacito prezzo del formarsi per un migrante adolescente

 

Oggigiorno l’immigrazione è un tema che riempie pagine e pagine di qualsiasi giornale in tutto il mondo e d’altronde non è in alcun modo nè un tema facile da affrontare nè uno che possa passare inosservato. Gli immigranti illegali sono l’oggetto principale dell’attenzione dei media, come ovvio che sia, a causa delle condizioni inumane a cui sono soggetti, la crisi umanitaria in Africa e le guerre nel Medio Oriente si contendono invece il secondo posto.

Nonostante ciò, nessuno si sofferma invece su coloro che sono immigrati ma non illegali, semplicemente immigrati. Quelle persone che hanno preso la decisione di abbandonare il loro paese d’origine, non per guerre o per questioni di vita o di morte ma semplicemente per il desiderio di una vita migliore per sè e/o per i propri figli.

C’è un gruppo di migranti che non sono nemmeno coscienti della loro condizione di migranti. come per esempio i bambini minori di dieci anni. Cambiare paese è stressante per chiunque, ma quando sei bambino non sei cosciente di ciò che significa trasferirsi, non pensi alla ricerca di una casa in buone condizioni e con un prezzo accettabile. Non sei cosciente dei prezzi dei prodotti e del cibo o di quanto ti possa venire a costare la doccia che ti fai ogni giorno, e nemmeno ti poni il problema delle tasse da pagare. Alla fine, quando si tratta di affrontare cambi così radicali nella vita, più giovane sei, meglio è.

Quando sei adulto, o hai almeno diciotto/diciannove anni, senza dubbio hai tantissime cose da imparare ma sei già cosciente delle cose che ti richiede la vita. Sai che avere un telefono non è un lusso, ma una necessità che si deve pagare, sai che il cibo che dimentichi di rimettere nel frigo lo dovrai buttare e con esso il denaro che hai pagato per comprarlo. Come persona adulta del “primo” mondo, sei stato attorniato di molti lussi che, a lungo andare, ti rendi conto che tuttavia non sono gratuiti, che nulla è gratis. Pertanto, come adulto, sei già preparato ad affrontare queste turbolenze della vita.

Però: che succede quando invece non sei nè bambino nè adulto ma sei nella tua prima adolescenza e uno dei tuoi genitori decide di portarti all’altro lato dell’Europa? Ho una madre eccezionale, che ha lavorato duro per ottenere tutto ciò che ha nella sua vita e nella mia, ma quella volta ha preso una decisione per me che a volte ancora rimpiango e mi ritrovo a desiderare che non l’avesse mai presa.

Quando una bambina di tredici anni si sposta in un paese di cui non parla la lingua, lascia alle spalle tutti i suoi amici, tutta la sua famiglia e, pertanto, tutti i suoi sogni. Quando ti sposti, cambi. Da un giorno all’altro ti vedi circondata da persone che ti guardano come fossi un batterio sotto la lente di un microscopio. Sei ancora giovane comunque, e la tua responsabilità è quella di andare a scuola e sforzarti per ottenere buoni voti, ma come puoi farlo quando i tuoi compagni di classe non vogliono nemmeno sedersi accanto a te? I professori ti guardano con un sorriso pietoso e, se ne hai la fortuna, alcuni di tanto in tanto si fermano al termine della lezione e provano a spiegarti quale punto del libro devi guardare e quale è il compito. Durante i primi mesi, nessuno sa cosa si deve aspettare da te, nè tu sai come affrontare le cose.

“Gli aranci sono ovunque qui, non li avevo mai visti”

La vita che hai lasciato dietro di te esiste solo nei tuoi ricordi, i tuoi vecchi amici hanno continuato con la loro vita, la tua famiglia sta facendo tutto il possibile per chiamarti tutti i fine settimana e tirarti su il morale, ma le loro voci portano con sè i ricordi di quando eri con loro e invece che sentirti sollevata ti ritrovi in lacrime perchè sai che questa parte di vita è terminata. Non ci saranno più grandi riunioni familiari, niente più trambusto per i regali di compleanno di ciascuno semplicemente perchè non puoi salire su un aereo ogni volta che qualcuno compie gli anni. Non ci saranno più serate calde seduti a tavola sotto alle vigne nel giardino in cui si ride tutti assieme… Il giorno dopo è di nuovo lunedì e la scuola ricomincia di nuovo. Ad alcuni compagni di classe ancora non piaci e non gliene potrebbe importare di meno il fatto che Natale si sta avvicinando e tu vuoi solo che un amico si avvicini a te per farti gli auguri e chiederti come passerai le vacanze.

I bambini sono creature sociali, non possono vivere isolati, e quando crescono in un contesto socialmente ricco e diventano adolescenti, interiorizzano il loro desiderio di appartenenza che include quello di far parte di una squadra per esempio o di un gruppo. Ma quando ti hanno tolto bruscamente dal tuo mondo e ti hanno spostato in un’altra realtà, hai bisogno di qualcosa in cui identificarti, hai bisogno di un’interazione umana di base e di amici. Perciò cominci a ridere delle loro battute, anche se ti fanno male, sorridi ogni volta che qualcuno ti dice che non ce la farai. Accetti il fatto che ricominciare da zero richieda un certo sacrificio anche da parte tua, che nulla è gratis e impari a prendere buoni voti a scuola, anche se questo vuol dire dormire solo cinque ore a notte.

Naturalmente, quando ti sposti nell’altro d’Europa, non solo cambia la lingua, ma pure la gente, i modi e la cultura. Cominci ad adattarti, modellandoti in uno stampo diverso dal tuo, però sei abbastanza giovane da poterlo fare. Giorno dopo giorno smetti di parlare la tua lingua madre un po’ di più e non la parli mai in pubblico perché altrimenti la gente saprebbe che non sei come loro e il modo in cui ti guardano te lo farebbe sapere. Mese dopo mese, lentamente cominci a muovere i tuoi passi un po’ più forte e a tenere la testa un poco più alta. Quando hai sedici anni già sei una persona completamente nuova, ti comporti come se avessi passato tutta la tua vita in questa nuova terra con queste persone diverse. Ti sei modellata per essere come tutti gli altri all’esterno, solo dentro di te, nel tuo cuore, tu sai la verità, che potrai passare tutta la vita in questo nuovo posto, ma non apparterrai mai a queste persone come ai tuoi amici del tuo luogo natio.

“i fiori d’arancio sono un po’ un simbolo della città”

A diciassette anni, cominci a renderti conto che cambiare te stessa solo per adattarti agli altri ti fa sentire povera perché hai lasciato la maggior parte delle cose che ti piacevano e ti comporti esattamente come le stesse persone che tanto disprezzavi. Ed è allora, quando cominci a pensare e domandarti: non è che essere un po’ diversi poi tanto un male non lo sia? A volte non avevi poi tutti questi motivi validi di modellarti e adattarti tutti quelli che ti stavano attorno, perché alla fine semplicemente non eri come loro (spoiler: tutti lo siamo, ma non te ne renderai conto che molto più avanti nella vita).

La maggior parte degli adolescenti non sono carini, non quando gli adulti non li vedono almeno, non quando è più importante. Gli anni dell’adolescenza sono quelli in cui ti formi e il contesto che ci forma non ci va sempre bene a tutti. Non è fatto perché tutti si adattino senza far sacrificare nulla, che sia importante per te o meno… comunque, questa è una decisione che solo tu puoi prendere, questo è il tacito prezzo che solo tu puoi decidere se pagare o no.

All’inizio, quando eri piccola, vivevi in una cultura con un sistema di valori, e poi ti sei ritrovata in un’altra, sconcertata e perplessa davanti al nuovo contesto, hai cominciato ad apprenderne i modi e i costumi finendo per acquisire nuove credenze.

Cresci e lasci indietro i tuoi amici dell’adolescenza, sei un’adulta ora secondo la società, le tue scelte devono essere responsabili e rispettose (non importa se il mondo che ti sta attorno, inclusa la politica e lo spettacolo ti mostrino l’opposto). Sei un’adulta ora, però, sai già davvero chi sei? Hai cambiato una volta, due.. dieci volte nell’arco degli anni e tutto ciò che sai è solo da dove vieni e dove sei in questo momento. Sai solo che ogni cambiamento ha il suo costo che non è indicato da nessuna parte, di nuovo, nulla è gratis.

“come la mia classe”

Continui perciò con la tua vita, continui sempre, ottieni un lavoro e diventi un professore, un giorno arrivi in classe e vedi tutti questi esseri umani giovani lì. Tu sei uno di quelli fortunati, ci sono altri adolescenti immigrati che hai conosciuto durante gli anni, di cui però la maggior parte è caduta nelle pieghe della vita, alcuni si sono sposati senza terminare gli studi, altri sono finiti in carcere… Tu sei uno di quelli fortunati che tutte le mattine bevi il tuo te nel tuo piccolo balcone del tuo appartamento, guardi il cielo azzurro e respiri profondamente. Non mandi nessuna preghiera a chissà quale divinità sconosciuta, solo respiri a fondo, ringraziando in silenzio la tua buona stella.

Esci dalla porta e cammini per strada, hai messo da parte i tuoi pensieri, ti concentri semplicemente nel mettere un passo dietro l’altro finchè ti ritrovi nell’aula della tua classe e vedi i tuoi studenti che parlano animosamente e ridono tra loro, finchè passano i primi dieci minuti di lezione e entra uno studente. Uno studente vestito in modo diverso, con lineamenti facciali diversi, con un nome strano e… e uno sguardo negli occhi, uno sguardo che riconosceresti ovunque… uno sguardo che anche tu avevi una volta, ansioso e agitato, probabilmente pregando che un terremoto se li ingoi in quello stesso momento. Lo sguardo di un adolescente immigrato il cui viaggio è appena cominciato.

Evelina Tancheva

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