Minoranze da proteggere e unione nella diversità: il Minority SafePack

Le fondamenta delle società in cui ci identifichiamo giacciono nelle lingue che parliamo. Con esse costruiamo culture: comunità connesse da una stessa lingua e tradizione. Tuttavia l’Europa, cosí come pure più o meno ogni Paese al suo interno, è sempre stata multiculturale. Oggi, l’UE unisce 27 paesi diversi, ma le culture al suo interno sono ben più numerose. Per dare giusto un’idea che spieghi quanto l’Europa sia varia al suo interno, basta dare uno sguardo all’incredibile numero di lingue parlate all’interno dell’Unione Europea. Almeno due dozzine di lingue fanno già parte della lista delle lingue ufficiali dell’UE, ma oltre a queste esistono anche una sessantina di lingue locali o appartenenti a minoranze [1]. Tra queste ci sono per esempio le lingue dei Sorbi (minoranza etnica di origine slava presente in Germania, Polonia e Repubblica Ceca) e quella dei Frisoni (gruppo etnico germanico presente nei Paesi Bassi e in Germania) e molte altre lingue parlate in paesi in cui la cultura prevalente è un’altra.

 

Alcune minoranze linguistiche – e con esse le rispettive culture – possiedono diversi livelli di autonomia negli stati in cui sono presenti. Un esempio di questo è dato dalla minoranza Ladina nel Sud Tirolo che possiede una certa autonomia politica rispetto alle province autonome di Trento e Bolzano e hanno un seggio riservato nel consiglio provinciale di Belluno e uno in quello della Regione Veneto [2]. Altri gruppi però mantengono costumi e tradizioni locali senza avere riconoscimenti politici. Poichè molti di questi gruppi rischiano l’estinzione [3], l’Europa può e deve agire.

 

Il minority SafePack a protezione delle minoranze

Per questo motivo è stato concepito il Minority Safepack  [4], che ha avuto inizio come iniziativa legislativa dei cittadini europei (ECI, European Citizens Initiative) ed è stato poi appoggiato e rilanciato dalla FUEN (l’Unione Federale delle Nazionalità Europee). Il pacchetto di proposte di riforma offre vari strumenti con i quali l’Europa può difendere i diritti delle sue minoranze. Tra questi, c’è l’istituzione dell’European Language Diversity Center, un’agenzia decentralizzata che può promuovere la diversità linguistica e culturale supportando gli sforzi messi in campo dai singoli stati membri.

Il Minority SafePack propone anche di tenere in considerazione la presenza di minoranze linguistiche e culturali come valore aggiunto importante quando si tratta di stanziare fondi UE per lo sviluppo di una regione. Oltre a questo, il pacchetto include riforme del copyright e della libertà di fruizione di materiale culturale in lingua che permetterebbe alle persone di accedere a contenuti audiovisivi senza incorrere nel geoblocking (il non poter vedere un canale televisivo in altri paesi rispetto a quello di appartenenza del canale) e in altri ostacoli che impediscano di poter godere di contenuti culturali nella propria lingua. Un esempio di questo, seppur banale, riguarda la trasmissione di eventi sportivi che le minoranze vorrebbero magari vedere nella lingua di un altro Paese, cosa che – a causa del geoblocking – al momento non possono fare. Ma il Minority SafePack non è solo questo: un esempio più importante riguarda infatti la difficoltà di accedere ad un’istruzione nella propria lingua materna, fattore che ad oggi pone le minoranze a rischio di subire un’assimilazione culturale. Ci sono poi molti altri esempi di temi affrontati dal Minority SafePack e proposte per la difesa delle minoranze con un effetto tangibile nel concreto.

Niente lasciato al caso

Le diverse proposte del Minority SafePack hanno molto in comune tra loro. Prima di tutto, offrono alle minoranze dei miglioramenti nel quotidiano e la possibilità all’UE di dimostrare la propria concretezza affrontando problemi reali. In secondo luogo, possono  già essere applicate tutte dalle attuali istituzioni europee: per l’UE, non si tratta dunque di fornire un semplice supporto alle politiche, ma di una reale possibilità di passare direttamente all’azione.

Infine, e ancora più importante, c’é da tenere in considerazione il fatto che nessuna delle proposte presenti nel Minority SafePack presenta rischi per la cultura maggioritaria o per l’unità di un paese. Il Minority SafePack non favorirà infatti la frammentazione degli Stati; al contrario, includendo le minoranze e dando loro il dovuto riconoscimento, si potrà ottenere un’unione più stabile per le future generazioni. Con i diritti delle minoranze assicurati a livello europeo, sarà infatti più difficile per i movimenti indipendentisti fare leva su sentimenti di sottorappresentanza e di minaccia verso la propria comunità.

Commissione Europea e SafePack
Il SafePack viene presentato alla Commissione Europea

Infatti, a ben vedere la stessa Unione Europea è nata proprio per superare problemi interni ai singoli paesi e nell’interesse di tutti i suoi popoli senza sacrificare il benessere di altri. Per questo, non è solo un dovere legale o morale quello di lavorare per muoversi nella direzione indicata dal Minority SafePack, ma è anche un qualcosa di intrinsecamente legato all’idea di Unione in quanto tale. Questa è infatti l’idea alla base dell’UE: la certezza che siamo più forti quando siamo uniti. Per questo motivo, l’UE rappresenta il miglior garante per la salvaguardia delle minoranze linguistiche e – per estensione – delle relative culture.

Con il Minority SafePack, l’Unione Europea può dunque allo stesso tempo proteggere le culture che altrimenti rischierebbero di svanire cancellate dal corso della storia, senza per questo però minare la lingua maggioritaria di un paese. Si tratta quindi di soluzioni win-win, che offrono un modo per promuovere un’unità genuina e una vera diversità.

Oltre un milione di Europei hanno firmato questa petizione formando un’ECI (iniziativa dei cittadini europei) [5] e quasi tre quarti del Parlamento Europeo hanno già votato una risoluzione per spingere la Commissione a legiferare su questa materia. Per i 50 milioni di Europei che parlano una lingua minoritaria (fonte), sentir parlare di queste politiche unitarie dà speranza [6]. Ora quindi, non resta che sperare che la commissaria Věra Jourová ascolti queste voci e che la Commissione Europea decida di procedere con un progetto legislativo per proteggere le molte minoranze che vivono nell’Unione.

Joel Boehme

[1] https://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/BRIE/2020/652086/EPRS_BRI(2020)652086_EN.pdf

[2] http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/17/DDLPRES/0/702274/index.html?stampa=si&aj=no&part=ddlpres_ddlpres1

[3] https://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/BRIE/2016/589794/EPRS_BRI(2016)589794_EN.pdf

[4] http://www.minority-safepack.eu/

[5] https://europa.eu/citizens-initiative/initiatives/details/2017/000004_en

[6] https://www.europarl.europa.eu/EPRS/EPRS-Briefing-589794-Regional-minority-languages-EU-FINAL.pdf

Le difficoltà di un italiano nell’imparare il francese

È pensiero comune ritenere che l’italiano e il francese siano “uguali” e che un italiano non avrà alcun problema ad apprendere il francese, o viceversa. Nulla di più falso! Naturalmente noi italiani siamo più avvantaggiati rispetto ad un cinese o un arabo, poiché le due lingue sono neolatine e le somiglianze molteplici. Sono presenti moltissime costruzioni sintattiche, modi di dire, ed altri elementi linguistici che non hanno alcun senso per un parlante la cui madrelingua non sia neolatina, ma che sono naturali per un italiano, uno spagnolo o un portoghese.

Tuttavia, per ottenere un alto livello di competenza linguistica, anche un italiano deve studiare, esercitarsi e…fare errori. Il francese è la quinta lingua che apprendo, e quindi ormai so benissimo che il solo modo di apprendere una lingua è quello di fare errori, di buttarsi, di parlare (o scrivere) non appena vi sia anche la benché minima possibilità di avere un qualsivoglia contatto con un interlocutore madrelingua. Ed è proprio ciò che sto facendo anche con il francese. In più, vivendo al momento in Francia, sento proprio la necessità di dover comunicare efficacemente coi nativi: non mi piace sentirmi imprigionato all’interno di una bolla!

Ad ogni modo, la “strada verso il bilinguismo” è costantemente in salita, perché, come avviene con l’apprendimento di ogni altra lingua, anche il francese presenta delle difficoltà. In particolare, data l’influenza della nostra madrelingua, gli ambiti che un parlante italiano può trovare (si legga: che ho trovato o trovo!) più spinosi quando apprende il francese sono:

  1. Certi aspetti della grammatica come:

– il modo di costruire la frase interrogativa con “est-ce que…”, o con l’inversione soggetto-verbo; in italiano, fondamentalmente è sufficiente un cambio nell’intonazione della frase, senza aggiunte o modifiche sintattiche. Tuttavia, questo aspetto non è particolarmente difficile, e basta un po’ di pratica per padroneggiarlo completamente.

– la frase negativa; per costruire la frase negativa, in francese si deve utilizzare una particella in più rispetto all’italiano: il “pas” (Io non mangio vs. Je ne mange pas). Storicamente, il francese era uguale all’italiano sotto questo punto di vista: solamente il “ne” era necessario. Successivamente, la particella post-verbale “pas” è stata aggiunta (in origine vi erano dei collegamenti semantici con “je ne marche pas”, dove “pas” stava letteralmente a significare “passo”). Ora, nel francese colloquiale, è addirittura possibile far cadere totalmente il “ne” (questo fenomeno linguistico relativo all’evoluzione del modo di esprimere la negazione è chiamato “Ciclo di Jespersen”). Quindi, è bene porre attenzione ad utilizzare in modo corretto la negazione, altrimenti, se si dimentica il “pas”, e si usa solo il “ne”, si potrebbe dare l’impressione di parlare francese antico!

– sebbene i tempi e i modi verbali siano gli stessi sia in italiano che in francese, la loro morfologia è evidentemente differente. L’uso di tempi verbali più complessi come il congiuntivo o il condizionale, è veramente problematico, e serve una buona competenza linguistica (soprattutto all’orale) per riuscire ad utilizzarli correttamente.

  1. La fonetica è un dramma! Ci sono dei suoni strani che non esistono in italiano (come la “R francese” e le vocali nasali), e la pronuncia di alcune parole è davvero particolare (“serrurerie”, “grenouille”, “yeux”, “quincaillerie”)!

  1. L’ortografia, strettamente collegata alla fonetica: ancor più drammatica! Se in italiano la corrispondenza suono-lettera è pressoché uno ad uno, in francese questo aspetto è da pazzi. Basti pensare alle parole “heureuse” o “beaucoup” che presentano molteplici lettere mute, o a “houx” (4 lettere, ma soltanto una vocale)! E che dire a proposito delle pronunce differenti a seconda del contesto? Un esempio emblematico è quello della parola “plus”: si pronuncia plus (con la S), plus (senza S), o plus (con la Z, facendo la liaison)? Ad esempio, si dice 2 plus 2 (con la S), ma je n’aime plus le café e je suis plus fort que toi (entrambi senza S), ma ancora je suis plus intelligent que toi (liaison, con la Z)! In più, con il solo indizio uditivo, non c’è proprio modo di sapere come si scrive una parola che si sente pronunciare: potrebbe essere in 15 modi diversi! E gli accenti, oddio, a destra, a sinistra, il circonflesso, la dieresi, aiuto!

  1. Il lessico: anche sotto questo aspetto si presentano delle problematiche. Dai, non neghiamolo, le similarità lessicali tra queste due lingue sono molto numerose, e la maggior parte delle volte, buttarsi e usare quella parola lì “perché tanto può essere che si dice come in italiano”, funziona, e come! Ma sfortunatamente non è sempre così. Certe volte provare ad usare una “parola italiana” non dà il risultato sperato e può accadere di dire una parola che non esiste, o, ancora peggio, che esiste ma ha un significato diverso; i cosiddetti falsi amici: fare delle gaffe è assicurato! Ecco qui infatti un esempio di falsi amici tra tre lingue neolatine con la parola salire:

FrançaisItalienEspagnol
salirsporcareensuciar
montersaliresubir
sortirusciresalir
apprendre pour un italien: de la pizza à la baguette

Ma poi spiegatemi un po’, i francesi sono tutti fenomeni in matematica!? Perché dopo il 69, cominciano a contare in modo strano? Contare normalmente non andava più bene? 8 mesi fa, quando ho cominciato a studiare il francese, mi è toccato rispolverare il libro di matematica delle superiori!

Scherzi a parte, se si vuole davvero diventare fluenti in francese, conoscere e padroneggiare le suddette regole è d’obbligo. E ciò vale anche per gli italiani! Naturalmente, non è un processo rapido o facile, serve tempo, ma noi italiani possiamo apprendere questa lingua più velocemente di altri parlanti che hanno una lingua madre molto distante dalla nostra.

Comunque, e ciò vale per tutte le lingue, non solo per il francese, non sono solo le difficoltà linguistiche ad influenzare l’apprendimento. Ci sono anche altri fattori, sia interni che esterni, come: la forza di volontà, gli stimoli, la motivazione, la perseveranza, la personalità, il luogo e il modo d’apprendimento. Chiaramente, non tutti apprendono alla medesima velocità, ma se la forza di volontà è buona, si è sufficientemente motivati e stimolati, e si ha la perseveranza di ottenere costantemente risultati postivi, la lingua si apprenderà più rapidamente.

Lo studente può sentirsi stimolato da vari fattori, tra cui, l’amore per la comunità di parlanti o per la lingua in sé, la volontà di sentirsi integrato nel luogo in cui si vive, la soddisfazione personale, o semplicemente vuole prendere un buon voto al prossimo esame oppure ottenere un avanzamento di carriera. In ogni caso, più la lingua verrà studiata con passione e migliori saranno i risultati, in un tempo più breve.

Ugualmente, anche il luogo e il metodo di apprendimento sono importanti fattori da tenere in considerazione: se la lingua viene appresa sul posto (vs. da casa), e con un professore (vs. da autodidatta), la velocità d’apprendimento sarà superiore, perché ci sarà una persona che può correggere all’istante gli errori commessi, e in più, le possibilità di praticare la lingua saranno più numerose. Sotto questo aspetto, la personalità gioca un ruolo fondamentale: se lo studente è più estroverso e non gli interessa di fare errori di fronte agli altri, otterrà migliori risultati, perché, come si suol dire, sbagliando s’impara!

Eduardo Calò

Il Nüshu: la voce silenziosa delle donne

un estratto della diretta con Giulia andata in onda il 2 maggio sulla nostra pagina facebook.

“Ogni volta che salgo sull’autobus che da Guilin conduce a Jiangyong, guardo fuori dal finestrino e penso alla potenza del yuánfèn 缘分 (un concetto della religione popolare che incarna la “coincidenza fatidica”) che mi ha portata a sentirmi a casa in un luogo così remoto e inesplorato”. 

Giulia Falcini, autrice del libro “Il Nüshu. La scrittura che diede voce alle donne”, CSA Editrice

Così è iniziato il mio viaggio “fisico” alla scoperta di quell’angolo del mondo che, senza saperlo, rappresentava proprio quel pezzo del puzzle che cercavo da tempo. Jiangyong, e in particolare il villaggio di Puwei, hanno rappresentato un incastro perfetto tra il mio amore per la Cina, per il popolo cinese e per la sua millenaria cultura: la sublimazione di ideali che per anni ho ammirato, ma che raramente ho trovato racchiusi in un unico posto. 

Il mio viaggio “spirituale” è nato invece in un’aula di università, quel luogo che spesso consideriamo solo contenitore di nozioni astratte, quella stanza da cui non vediamo l’ora di evadere per dare concretezza alle parole dei manuali. Grazie ai racconti colmi di passione di chi ci narrava la Cina, è proprio all’interno di quelle classi che io ho avuto invece la grande fortuna di poter iniziare a viaggiare con la mente e di innamorarmi di un Paese prima ancora di vederlo dal vivo. Ed è proprio tra quelle mura che sentii parlare per la prima volta del nüshu 女书, e la mia mente decise subito che avrei dovuto approfondirlo, conoscerlo, appassionarmene. E così è stato. 

“Il nüshu: la scrittura che diede voce alle donne” è stata un’altra grande avventura, che mi ha permesso, a ritroso, di riflettere su tanti dettagli delle mie esperienze, di approfondire i particolari di questo splendido fenomeno culturale e di prendere coscienza della bellezza di tanti luoghi e di tante persone. L’idea di questo libro è nata circa due anni fa, quando nell’estate 2018 mi ritrovai a parlare di nüshu con la Prof.ssa Zhao Liming, all’interno del suo studio presso l’Università Tsinghua di Pechino: pensai subito che quei meravigliosi racconti non potevano restare solo per me. 

COS’È DUNQUE IL NÜSHU?

Nüshu significa letteralmente “scrittura delle donne”. La sua pronuncia si basa sul dialetto locale, ovvero quello dei villaggi situati intorno alla contea di Jiangyong, nella provincia dello Hunan, nella Cina meridionale. I caratteri femminili sono circa 396, ad ognuno dei quali corrisponde una sillaba del dialetto. A differenza del cinese dunque, questi ideogrammi trascrivono suoni, non significati e ad ognuno di essi ne corrispondono diversi di quelli cinesi “tradizionali”. Da qui l’importanza del contesto per comprenderne il significato. È difficile stabilire una data precisa per la creazione del nüshu che con molta probabilità avvenne intorno al 1700, ma tale questione è oggetto di continui dibattiti tra gli studiosi. La scrittura femminile nacque sicuramente in risposta alla società patriarcale dell’epoca, che poneva inevitabilmente le donne in una condizione di sottomissione. Un aspetto fondamentale che ha portato alla nascita di questa lingua è il fatto che le ragazze non potessero frequentare la scuola: per rimanere in contatto tra di loro, soprattutto una volta sposatesi, si inventarono dunque un loro modo per comunicare. Il nüshu rappresentò anche un modo per evadere dall’opprimente quotidianità, un mondo parallelo nel quale le donne si rifugiavano, dove sapevano di poter trovare comprensione e dove potevano sfogare il proprio dolore. Non è un caso che, secondo la leggenda, il nüshu venne creato da una ragazza del villaggio di Jingtian che venne scelta come concubina dell’imperatore. La donna non venne ben accolta in corte e la solitudine e la nostalgia per i suoi cari, la portarono a creare una nuova scrittura, differente da quella degli uomini, per dar sfogo ai propri pensieri e farli arrivare ai familiari.  

Quando si pensa al nüshu, è inevitabile parlare di “lingua delle donne e per le donne” perché è proprio da loro che è stata concepita e messa al mondo. È importante però sottolineare che quella femminile, non fu mai una scrittura segreta, anzi, furono semplicemente gli uomini a non interessarsene mai, in quanto creata da quella parte di società considerata incapace di produrre qualcosa di apprezzabile. 

In effetti, se si considerano i luoghi molto piccoli nei quali la cultura nüshu è nata, ha vissuto e continua ad essere tramandata, è impensabile che la parte maschile della società non si fosse mai accorta di quei caratteri romboidali che ricoprivano i tanti oggetti realizzati dalle signore; ed era impossibile che non avessero mai colto le melodie che riecheggiavano nei villaggi. Gli avvenimenti storici e sociali hanno portato ad un grande cambiamento rispetto alla reputazione attribuita alla scrittura femminile: gli uomini hanno iniziato ad interessarsi al nüshu, in contea ne parlano orgogliosi come di un simbolo che caratterizza la loro città e molti di loro sono direttamente impegnati nella promozione di questo fenomeno. E non è un caso che oggi, nei villaggi, non appena le donne cantano, tutti si fermano, compresi gli uomini; e non per dovere o per riverenza, ma perché realmente catturati da questi suoni allo stesso tempo luminosi e struggenti. 

E sono proprio i canti a fungere da vettori dei sentimenti femminili più intimi, profondi e confidenziali, trattando ogni tipo di tema, dai raccolti, alle festività, ai momenti felici, fino a quelli più sconfortanti.

LE PERSONE: SOFFIO VITALE DELLE TRADIZIONI

“I luoghi del Nüshu mi hanno insegnato che si può essere ricchi anche senza acqua corrente in casa e che l’umiltà e il buon cuore sono alla base di ogni grande persona.”

Nonostante i caratteri rappresentino l’aspetto più affascinante di questa cultura, è solo visitando e vivendo i villaggi che orbitano intorno a Jiangyong che ci si può rendere conto di una grande verità: il nüshu non è una lingua, ma un fenomeno culturale. La sua esistenza infatti, è strettamente collegata a quella delle tradizioni locali, delle festività popolari e, soprattutto, delle persone.

Nel mio libro compaiono molti personaggi che hanno vissuto e tramandato il nüshu: Chen Xinfeng e Hu Yanyu sono sicuramente tra i nomi che il lettore non potrà dimenticare. La grande accoglienza che ogni volta mi riservano nella loro abitazione del villaggio di Puwei, mi ha permesso di entrare nel vivo della loro cultura a 360 gradi, di percepire come viene vissuta al giorno d’oggi, di ascoltare tanti racconti, di registrare i colori, i suoni e i gesti di quella che non è

solo una lingua, ma molto, molto di più. Le due -madre e figlia- conservano i tratti tipici delle donne che oltre tre secoli fa ebbero la forza di creare un mondo parallelo a quello che le stava annientando. Difficile esprimere a parole la bontà che le caratterizza, ma è la loro complicità quella che maggiormente colpisce chiunque le osservi mentre intonano i brani nüshu. 
Una volta un’amica mi disse che “nasciamo in un posto, ma poi abbiamo luoghi del cuore dove sappiamo che possiamo tornare sempre”. Io credo di aver trovato il mio, quello che mi manca ogni volta che non sono lì.

Giulia Falcini

Qui di seguito il link al libro. “Il Nüshu. La scrittura che diede voce alle donne”, Giulia Falcini, CSA Editrice: http://www.csaeditrice.it/index.php?option=com_virtuemart&view=productdetails&virtuemart_product_id=404&virtuemart_category_id=1&lang=it

Per vedere la registrazione della diretta invece, clicca sul link:

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