Incarnazione di un Enea contemporaneo, nei mesi di emergenza Covid-19 il personale sanitario è stato esempio di pietas, all’umanità ha unito il senso del dovere.
Una primavera di morti. I fiori che sbocciavano li portavamo direttamente accanto ai corpi. Li portavamo col pensiero, s’intende, perché uscire di casa non era possibile. Una primavera di incertezza. L’unica affermazione senza possibilità di smentita era il desiderio di progettualità, di condivisione, di vita. Nel tempo di questa stasi apparente, però, qualcosa si muoveva instancabile, fondamentale. Febbrile. Era il lavoro del personale sanitario che, chiamato all’azione, si ritrovava ad essere la spina dorsale di un intero Paese.
Durante il lockdown e nei mesi che sono seguiti molte parole di ringraziamento sono state spese per medici, infermieri e per tutto il personale sanitario. Parole doverose, meritate, giuste. Tra queste, però, ce n’è una – eroi – che, usata come sintesi semplicistica di un vissuto di mesi, a mio modo di vedere impoverisce l’umanità alla base di un lavoro estenuante in condizioni eccezionali e rischiose. Anzi, rischia di anteporre la vocazione al senso del dovere, l’eroe all’uomo.
Un episodio presente nel libro II dell’Eneide mi ha aiutata a spiegare la ragione di questa mia visione durante la serata-omaggio al Pronto Soccorso di Pesaro che ho avuto l’onore di presentare (26 agosto 2020, Villa Berloni, Pesaro).

Peregrinazioni e tempeste tormentano la fuga di Enea da Troia e lo conducono alla corte di Didone, regina di Cartagine, dove, superstite, racconta che cosa avvenne in quella notte buia d’orrore quando i Greci entrarono in città con l’inganno famoso del cavallo.
Enea ricorda una città in fiamme, arsa certamente dai fuochi dei nemici e dal terrore delle stragi, ma anche dal dolore per non aver compreso prima ciò che si stava preparando, per non aver dato ascolto a chi invece delle ipotesi le aveva avanzate. Ricorda una città arsa dal dolore di chi, impotente, deve fronteggiare la paura della perdita dei propri cari o di se stesso. I Greci entrano a Troia sotto una veste nuova, sconosciuta e l’attaccano: quasi l’effetto della pandemia che abbiamo vissuto e che stiamo ancora vivendo, da un lato con quel senso di frustrazione che segue un inganno e dall’altro con quella caparbietà che contraddistingue chi non intende perdere la speranza.
Enea racconta una battaglia sanguinosa e durissima che travolge e sembra non lasciare spazio al pensiero del dopo. Mentre attorno si agita il caos, mentre la morte serpeggia tra le strade, tutto ciò che si può fare è tentare di uscirne. È tentare di salvare le vite che ancora resistono. Enea si mette in cammino affrontando pericoli per se stesso e per gli altri perché vuole portare lontano dal dramma suo padre, suo figlio, sua moglie e perfino i servi.
Cercando la salvezza, Enea si carica sulle spalle il padre e prende per mano il figlio. In quest’immagine che lega insieme tre anime, c’è condensato il filo della vita: Anchise, stanco e affaticato, sulle spalle del figlio; Iulo, piccolo e ignaro, che afferrando la mano di Enea cerca di tenere il passo del padre; Enea stesso, figlio padre e uomo, che si fa carico degli altri ancor prima che di sé. Il passato e il futuro sono tenuti insieme dal presente che agisce, sopra ogni difficoltà, in virtù di una speranza più forte: se il “pericolo è uno e comune”, allora “unica sia anche la salvezza”.
Incarnazione di un Enea odierno, durante il periodo d’emergenza il personale sanitario ha portato sulle spalle e tenuto per mano i malati, le loro famiglie e la collettività intera. Ha fatto proprio questo: si è “sottoposto al carico” e ha tenuto insieme i brandelli scomposti delle vite di un interno Paese – cioè, ha dato una dimostrazione attiva, concreta, resiliente di pietas.
Con quella pietas, che all’amore per i propri cari aggiunge un profondissimo senso del dovere, ha operato l’intero personale sanitario – mettendo in secondo piano le vicende personali, aiutando e curando anche a scapito della propria salute, stando vicino ai malati in tutti i modi in cui un uomo può stare vicino ad un altro uomo. Rendendosi esempio di civiltà.
Enea, impavido e coraggioso negli scontri con i guerrieri armati, trema di fronte al frusciare del vento quando si tratta di proteggere un’altra vita, diversa dalla sua, in una circostanza drammatica e senza precedenti. Enea ha paura, soffre, si affatica mentre cerca di non venire meno né al suo compito né al suo desiderio – salvare ciò che è mortale, fragile, caduco. Enea è prima di tutto un uomo e soltanto poi è un eroe. Ecco, allora, che il personale sanitario, Enea del nostro tempo, non può che essere composto da uomini e donne capaci di mettersi al servizio della collettività nonostante la paura, il dolore, il pericolo. Sono gli uomini e le donne di cui abbiamo bisogno per sperare. Sono i modelli a cui rifarci per operare responsabilmente affinché il futuro ci apra le braccia, ricordando le parole di Oriana Fallaci in Un uomo:
“i gesti spettacolari, gli eroismi privati, non incidono mai sulla realtà: sono manifestazioni di orgoglio individuale e superficiale, romanticismi affini a se stessi proprio perché restano chiusi entro i confini dell’eccezionalità”
Referimenti:
Un Uomo, Oriana Fallaci
Eneide, Virgilio