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Città del Messico, l’unico Messico conosciuto finora, mi ha convinto del fatto che tale aroma sia parte essenziale, colonna portante dell’infrastruttura del paese. Ma a quanto pare non qui, non a Playa. Non sono ancora sicura di quale sia l’eccezione. Sapevo fin dall’inizio che Città del Messico é come nient’altro al mondo, ma di certo non mi aspettavo una tale mancanza di similarità quando sono atterrata nella calda e soleggiata Cancun. Città del Messico mi ha preparato per la folla, per il traffico, per le alte grida insistenti dei taqueros, per gli autobus senza porte e per il flusso infinito di taxi rosa, per le case colorate, sempre diverse l’una dall’altra, per i quartieri in continua evoluzione ma senza fine, fondendosi l’uno con l’altro in modi misteriosi. In breve, un sovraccarico di sensi tanto confusionario da dare alla testa.
Non sono preparata, tuttavia, per quello che trovo davanti ai miei occhi. Catene di fast food americane, imponenti hotel che dominano le spiagge dalla sabbia bianco-dorata, giganteschi SUV che sparano musica a tutto volume mentre sfrecciando per le larghe strade, hipster bars e costose boutique di abbigliamento. Mi sembra che da qualche parte ci sia ancora bellezza, ci sia ancora Messico, aldilà di tutti quei negozi di occhiali da sole, ma ci vuole davvero uno sforzo per andarla a trovare. Quasi impossibile, senza l’aiuto di un locale.
Dopo alcuni giorni trascorsi tra Cancun e Playa del Carmen, decidiamo di spostarci verso sud. Il viaggio in autobus per Bacalár mi rivela una dimensione del Messico che non avevo ancora incontrato. È un tragitto piuttosto lungo, ore e ore tagliando attraverso un nulla fatto di oscurità, mangrovie e alcuni solitari sorgenti di luce. Una strada diritta, che prosegue per miglia e miglia e miglia, una ferita aperta nella densa foresta tropicale. Il numero di case che appaiono sul lato della strada si può contare sulla punta delle dita. Sembrano come lucciole in una notte d’estate: diffondono una debole luce intermittente, emergendo a fatica, delicatamente dall’oscurità della giungla. Le loro facciate senza porte assomigliano a volti pacifici di guardiani silenziosi e determinati che con lo sguardo teso al di lá del limite della civiltà marcano il confine tra uomo e natura. Fisso gli occhi su quei piccoli, insignificanti conglomerati di umanità, e li seguo il più a lungo possibile, prima che vengano inghiottiti di nuovo nella notte. A loro peró non sembra importare molto. Ogni piccolo avamposto ha in sé una vita che l’oscurità non può sconfiggere. Cani corrono in giro, giocano con i bambini, l’eco di una musica vivace si diffonde nella foresta, anziani signori in sombrero bevono seduti su sedie di plastica, nella tremolante bianca luce elettrica. È un viaggio lungo, affascinante, inquietante, accompagnato dalla luna più grande che io abbia mai visto. Quando finalmente arriviamo a destinazione, la sensazione è quella di emergere da un lungo sogno angosciante e magnifico. Sento di essermi lasciata alle spalle qualcosa di familiare, e di essere in procinto di assistere a qualcosa di decisamente inconsueto.

La nostra dimora per i prossimi giorni è una cabina di legno sul bordo della laguna di Bacalár, a circa 20 metri dalla riva. La laguna è famosa per essere di ben sette colori, ma per ora non ne vediamo nessuno, è tutto ancora oscurità e natura, e quella sensazione di perdere il contatto con la composta, artificiosa umanità che ci circondava solo fino a poche ore fa.
Al sorgere del sole, la mattina dopo, un’ondata di luce calda, morbida e gialla si riversa sulla terra e sull’acqua, rivelando ai nostri occhi assonnati una sorprendente, luccicante armonia di blu e verdi, che intatta, pacifica, si estende per chilometri e chilometri, dalla nostra piccola cabina sull’acqua fino al villaggio di Bacalár e oltre.
I giorni si susseguono veloci, fluidi, in una sorta di beato stupore. Le ore sembrano scivolare l’una sull’altra, in una onirica sequenza di kayaking, leggera birra messicana, passeggiate in infradito sotto il sole ardente di Dicembre, limes e salse piccanti.

L’ultima sera a Bacalár decidiamo di dirigersi verso il centro della cittadina per cenare l’ultima volta con alcuni compagni di viaggio incontrati nel nostro ostello. Consumiamo i nostri tacos e birre nell’ennesima taqueria, seduti su sedie di plastica Coca-Cola. Appena terminato, è tempo di affrettarsi attraverso la città per raggiungere la stazione degli autobus da dove i nostri amici partiranno. Siamo in ritardo, non ci sono taxi o autobus in giro. Non c’è altra scelta se non camminare, o meglio correre, attraversare tutta la città. Per risparmiare minuti preziosi, abbandoniamo le arterie principali e ci avventuriamo per strette stradine secondarie. È come attraversare un portale per un’altra dimensione, come tuffarsi all’improvviso nella vita reale delle persone che nascono, vivono e muoiono qui. I diversi scorci che colgo mentre ci affrettiamo verso la stazione sono come fotogrammi casuali di un film di vita quotidiana. La maggior parte delle case non sembra avere porte o finestre o, se le hanno, sono quasi sempre spalancate. Ogni apertura offre una visuale diversa: montagne di lattine di birra vuote accumulate sul pavimento sudicio, secchi pieni a metà di chissà quale liquido, donne dormendo in amache improvvisate, anziani seduti nell’oscurità delle loro casette vuote, lussuriosa vegetazione che ovunque sembra prendere controllo delle rovine di tuguri semi-distrutti. Le strade sono buie, con la sola luce della luna ad illuminare il nostro cammino i marciapiedi risultano impraticabili: le radici di enormi magnolie e la totale mancanza di cure umane li hanno trasformati in trappole di cemento dove inciampiamo in continuazione. Cani randagi ci accompagnano allegri nella notte. Dopo circa una mezz’ora spesa incespicando per le vie di Bacalár, il familiare ruggito del traffico ci accoglie appena emergiamo di nuovo nella fredda luce artificiale di una grande arteria stradale.
Siamo tornati alla realtà. La corsa di 25 minuti ora sembra una breve allucinazione. Eppure, mi appare più reale di tutti i giorni trascorsi finora in Messico. Come è possibile che una corsa frettolosa attraverso la periferia di una piccola città sia stato il momento più autentico del mio viaggio fino a questo punto? Cosa ha rotto l’incantesimo che a Playa Del Carmen e Cancun mi ha sempre fatto sentire all’interno di una vetrina? Cosa, finalmente, mi ha trasportato dall’altra parte del vetro, nella concretezza della vita di quelle persone che realmente appartengono a questi luoghi, quelle persone che non sono solo di passaggio, che non si trovano qui soltanto per una foto da pubblicare su Instagram?
Chi o cosa ne è veramente responsabile? Possibile che sia semplicemente la troppo spesso pretenziosamente ignorante e superficiale concezione del viaggiare tipica degli occidentali, che ci conduce sempre verso le medesime, amichevolmente esotiche destinazioni? Possibile che tra le cause ci sia anche il piuttosto schietto e concreto interesse economico, che spinge alcune culture a rinunciare alle loro identità originarie, alle loro storie, al punto di ridurre le proprie tradizioni più autentiche in ben riusciti, ripetibili spettacoli per il visitatore occasionale?
Non avrò ancora visto abbastanza del mondo – e probabilmente mai avrò – per poter esprimere un giudizio assolutamente esatto ed approfondito, ma c’è qualcosa di innegabilmente ed evidentemente reale in questa piccola città, nelle faccine sorridenti dei bambini che corrono per la pizza principale, negli ingressi senza porte di queste casette, che silenziose rivendicano la loro esistenze, così come l’esistenza delle vite che si susseguono al loro interno, ergendosi a prova indiscutibile che un mondo intero, sconosciuto, autosufficiente esiste oltre le mura della nostra limitata consapevolezza.
Mi chiedo, se dovessi tornare qui tra uno o due anni, saranno ancora qui questi bambini? Queste casette? Saranno ancora colorati, intatti, indifferenti al resto del mondo? O saranno stati tutti ingoiati dalla marea inarrestabile e spietata della globalizzazione?
Grida allegre risuonano intorno a me stessa e mi riportano alla realtà. Mi ritrovo a salutare i nostri amici, mentre guardo l’autobus allontanarsi dalla stazione e rotolare via sulla strada, di nuovo verso la foresta, di nuovo pronto per essere inghiottito da un’altra lunga notte buia e tropicale. Con la mente e il cuore pieni di una strana sensazione di dolce malinconia, mi rivolgo al resto del gruppo e insieme ci dirigiamo verso il centro città, pregustando la notte di salsa, merengue, birre e margarita che ci aspetta, il tutto mentre un’immensa luna bianca brilla luminosa sulle silenziose acque nere della Laguna dei Sette Colori.
Rachele Angeletti

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